Interpretare la Bibbia, alla ricerca di un metodo condiviso
Re: Interpretare la Bibbia, alla ricerca di un metodo condiv
Grazie Stella, molto pertinente. Il sacrificio, inoltre, non e' rinnovabile. Vittorio, se incontri Cristo e parli con lui forse sei un apostolo! Purtoppo, oggi molti cristiani lo credono. Ma e' giusto cosi', ognuno deve fare le sue scelte. Pero' stiamo ancora aspettando questo metodo ermeneutico di cui parli. Visto che non arriva, ti propongo io di fare un'analisi su una parte delle Scritture che mi ha dato molto da pensare: 1Cor 12-13, sui doni dello spirito.
Re: Interpretare la Bibbia, alla ricerca di un metodo condiv
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ANTONIO

ANTONIO

l,anima mia. ha sete del Dio vivente
Re: Interpretare la Bibbia, alla ricerca di un metodo condiv
Stella, dovresti partecipare piu' spesso alle nostre discussioni cervellotiche... 

Re: Interpretare la Bibbia, alla ricerca di un metodo condiv
Certamente, Stella, è lo Spirito che dà la vita, non la carne, per questo motivo la carne ha bisogno di essere vivificata dallo Spirito del Risorto che egli può effondere, essendone ricolmo: "Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati»" (Gv 20,22-23).
L'Eucaristia non è una ripetizione di un evento passato, ma un rendere di nuovo oggi presente quell'evento. È un po' come se ogni volta che si spezza il Pane Gesù facesse un salto nel tempo nell'oggi, rendendoci partecipi del suo sacrificio che fece allora una volta per sempre. Questo è l'aspetto straordinario dell'Eucaristia, che ci permette di ascoltare le parole di Gesù oggi come duemila anni fa. Per questo motivo Gesù usa i verbi al presente: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno".
L'Eucaristia non è una ripetizione di un evento passato, ma un rendere di nuovo oggi presente quell'evento. È un po' come se ogni volta che si spezza il Pane Gesù facesse un salto nel tempo nell'oggi, rendendoci partecipi del suo sacrificio che fece allora una volta per sempre. Questo è l'aspetto straordinario dell'Eucaristia, che ci permette di ascoltare le parole di Gesù oggi come duemila anni fa. Per questo motivo Gesù usa i verbi al presente: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno".
Re: Interpretare la Bibbia, alla ricerca di un metodo condiv
Antonio, queste premesse sul metodo sono necessarie, altrimenti non si può capire. Poi lo applicheremo anche ad 1 Cor 12-13.
- Gianni
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Re: Interpretare la Bibbia, alla ricerca di un metodo condiv
Yeshùa spiega cosa intendeva con il suo discorso così sconcertante. Non voleva certo alludere alla sua carne materiale: essa non giova a nulla; alludeva alle sue parole che sono spirito e vita:
“È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita”. – V. 63.
Ecco il punto cruciale contro cui molti urtano: non credono, non vogliono credere che Yeshùa sia il pane di vita e che abbia la possibilità di vivificare. È per questo che mai avranno la vita. “Da quel momento, molti discepoli di Gesù si ritirarono e non andavano più con lui. Allora Gesù domandò ai dodici: Forse volete andarvene anche voi?”. - Vv. 66,67, PdS.
Ancora risuona la risposta pronta e spontanea che Pietro diede in quel lontano giorno di primavera sul lago di Galilea: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole che danno la vita eterna. E ora noi crediamo e sappiamo che tu sei quello che Dio ha mandato”. - V. 68, PdS.
“Questo è il mio corpo”, “questo è il mio sangue”
Yeshùa volle che del suo sacrificio, della sua morte, fosse fatta in futuro una commemorazione. Egli scelse le cose più comuni e quotidiane – il pane e il vino – quali simboli del suo corpo e del suo sangue.
“Mentre mangiavano, Gesù prese del pane e, dopo aver detto la benedizione, lo ruppe e lo diede ai suoi discepoli dicendo: ‘Prendete, mangiate, questo è il mio corpo’. Poi, preso un calice e rese grazie, lo diede loro, dicendo: ‘Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati’”. - Mt 26:26-28.
“Questo è”. “È”, greco ἐστίν (estìn), copula; può significare sia “è” sia “rappresenta”. La Bibbia non ha alcun verbo per indicare “rappresenta” o “simboleggia”. Se Yeshùa, dunque, avesse voluto indicare che il pane e il sangue sono segno del suo corpo e del suo sangue, avrebbe dovuto necessariamente usare la copula “è”. D’altra parte, Yeshùa non parlò neppure in greco: parlò in ebraico o in aramaico. In queste lingue il verbo essere al tempo presente non esiste. Nessun teologo o esegeta o studioso potrà mai trovare nella Scrittura (sia nel testo ebraico sia il quello greco) un solo verbo che indichi “rappresentare” o “simboleggiare”. Questo concetto è sempre indicato con “è”, se in greco, sottinteso se in ebraico.
Comunque, la frase di Yeshùa può essere intesa sia in senso letterale che metaforico. È solo il contesto che può stabilire l’intenzione di Yeshùa che l’ha pronunciata. È solo il contesto che può stabilire se Yeshùa intendeva dire: ‘Questo è realmente’ oppure ‘questo rappresenta’.
Quando vediamo qualcuno che indicando una fotografia dice: “Questa è mia figlia”, comprendiamo che siamo in presenza solo di una rappresentazione di quella figlia. Così, quando qualcuno indica su una cartina geografica un puntino e dice: “Questa è Gerusalemme”, comprendiamo ancora che siamo di fronte solo a un simbolo. Qualche teologo obietta che in nessuna lingua e in nessun popolo il pane e il sangue sono mai stati simboli del corpo e del sangue, per cui sono da intendersi letteralmente. Questo non è del tutto vero. Sia in Babilonia sia in Palestina si vedeva la pigiatura dell’uva come la morte del grappolo che dava il vino, e questo vino era chiamato “sangue dell’uva”. La somiglianza stava nel fatto che aveva lo stesso colore e che era considerato la sorgente vitale della vite. Mosè dice alla discendenza di Giacobbe: “Tu hai bevuto il vino generoso, il sangue dell'uva” (Dt 32:14). In Isaia, al misterioso personaggio che impersona Dio viene domandato: “Perché questo rosso sul tuo mantello e perché le tue vesti sono come quelle di chi calca l'uva nel tino?”; e quello risponde: “Io sono stato solo a calcare l'uva nel tino, e nessun uomo di fra i popoli è stato con me; io li ho calcati nella mia ira, li ho calpestati nel mio furore; il loro sangue è spruzzato sulle mie vesti, ho macchiato tutti i miei abiti” (63:2,3). Nulla quindi di più naturale che usare il vino come simbolo del sangue. E nulla di più naturale per i discepoli comprendere che Yeshùa stava usando il vino come simbolo del “sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati”. Meno naturale era, viceversa, capire il rapporto pane-corpo. Solo dalle circostanze i discepoli potevano conoscere il senso che Yeshùa voleva dare all’espressione: “Questo è il mio corpo”.
Le circostanze della Cena del Signore
Sono proprio le circostanze in cui Yeshùa pronunciò quella frase che c’inducono ad annettere un valore puramente simbolico alle sue parole.
Il clima era quello pasquale. Sebbene quella non fosse la sera di Pasqua, era comunque quella precedente e, mentre fervevano i preparativi, gli ebrei già s’immedesimavano. Ogni cosa era ricolma di atti simbolici: cercare una casa temporanea, celebrare di notte, vegliare, il pane non lievitato per la fretta, l’agnello il cui sangue tenne lontano l’angelo sterminatore, le erbe amare come la schiavitù. E ai bambini che domandavano il senso di quelle cose, gli ebrei dovevano rispondere. “In quel giorno tu spiegherai questo a tuo figlio, dicendo: ‘Si fa così a motivo di quello che il Signore fece per me quando uscii dall'Egitto’. Ciò sarà per te come un segno sulla tua mano, come un ricordo fra i tuoi occhi, affinché la legge del Signore sia nella tua bocca; poiché il Signore ti ha fatto uscire dall'Egitto con mano potente” (Es 13:8,9). In un ambiente così saturo di simbolismi era ben naturale per gli apostoli attribuire un valore simbolico anche agli elementi addotti da Yeshùa, cioè il pane e il vino.
I discepoli compresero bene il senso della nuova istituzione che Yeshùa volle stabilire. Luca riferisce il valore o significato di quei gesti nella spiegazione di Yeshùa stesso: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22:19). Anche Paolo si riferisce alla spiegazione di Yeshùa stesso: “Il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo ruppe e disse: ‘Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me’. Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: ‘Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me’” (1Cor 11:24,25). E Paolo, subito dopo dice: “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice” (v. 26) - non ‘ogni volta che mangiate il corpo e bevete il sangue’, il che sarebbe stato ripugnante, specialmente per un ebreo (in quanto cose contrarie alla Legge).
Dunque, “in memoria”. Va notato che il ricordo o la commemorazione comporta l’assenza della persona ricordata. Quindi, quando si compie la Cena del Signore non siamo nel campo di un cambiamento sostanziale degli elementi, ma nell’ambito di un ricordo. Ciò che si attua mediante il ricordo non è transustanziazione, ma simbolo o segno. Questo ricordo in assenza della persona ricordata si fa finché quella persona è assente. Quando Yeshùa ritornerà, cesserà il ricordo: “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1Cor 11:26). Che cosa poteva dire di più Yeshùa per indicare che si trattava di simboli? Le sue parole vanno intese come voleva che fossero intese e come, di fatto, le intesero i discepoli: siamo di fronte a degli emblemi, a dei simboli.
Nel modo di pensare di un ebreo (e quindi della Bibbia stessa) il senso più naturale di intendere il tutto è in ambito simbolico. Un parallelo lo abbiamo nel modo di esprimersi di Ezechiele: dopo essersi tagliato i capelli e la barba, ne brucia una parte, un’altra la percuote con la spada e una terza la disperde; poi dice (5:5): “Questa è Gerusalemme” (testo originale ebraico: זֹאת יְרוּשָׁלִַם (zot yerushalàim). È lo stesso modo di parlare di Yeshùa: “Io sono la porta” (Gv 10:7). Perfino un occidentale capisce che è simbolico.
“È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita”. – V. 63.
Ecco il punto cruciale contro cui molti urtano: non credono, non vogliono credere che Yeshùa sia il pane di vita e che abbia la possibilità di vivificare. È per questo che mai avranno la vita. “Da quel momento, molti discepoli di Gesù si ritirarono e non andavano più con lui. Allora Gesù domandò ai dodici: Forse volete andarvene anche voi?”. - Vv. 66,67, PdS.
Ancora risuona la risposta pronta e spontanea che Pietro diede in quel lontano giorno di primavera sul lago di Galilea: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole che danno la vita eterna. E ora noi crediamo e sappiamo che tu sei quello che Dio ha mandato”. - V. 68, PdS.
“Questo è il mio corpo”, “questo è il mio sangue”
Yeshùa volle che del suo sacrificio, della sua morte, fosse fatta in futuro una commemorazione. Egli scelse le cose più comuni e quotidiane – il pane e il vino – quali simboli del suo corpo e del suo sangue.
“Mentre mangiavano, Gesù prese del pane e, dopo aver detto la benedizione, lo ruppe e lo diede ai suoi discepoli dicendo: ‘Prendete, mangiate, questo è il mio corpo’. Poi, preso un calice e rese grazie, lo diede loro, dicendo: ‘Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati’”. - Mt 26:26-28.
“Questo è”. “È”, greco ἐστίν (estìn), copula; può significare sia “è” sia “rappresenta”. La Bibbia non ha alcun verbo per indicare “rappresenta” o “simboleggia”. Se Yeshùa, dunque, avesse voluto indicare che il pane e il sangue sono segno del suo corpo e del suo sangue, avrebbe dovuto necessariamente usare la copula “è”. D’altra parte, Yeshùa non parlò neppure in greco: parlò in ebraico o in aramaico. In queste lingue il verbo essere al tempo presente non esiste. Nessun teologo o esegeta o studioso potrà mai trovare nella Scrittura (sia nel testo ebraico sia il quello greco) un solo verbo che indichi “rappresentare” o “simboleggiare”. Questo concetto è sempre indicato con “è”, se in greco, sottinteso se in ebraico.
Comunque, la frase di Yeshùa può essere intesa sia in senso letterale che metaforico. È solo il contesto che può stabilire l’intenzione di Yeshùa che l’ha pronunciata. È solo il contesto che può stabilire se Yeshùa intendeva dire: ‘Questo è realmente’ oppure ‘questo rappresenta’.
Quando vediamo qualcuno che indicando una fotografia dice: “Questa è mia figlia”, comprendiamo che siamo in presenza solo di una rappresentazione di quella figlia. Così, quando qualcuno indica su una cartina geografica un puntino e dice: “Questa è Gerusalemme”, comprendiamo ancora che siamo di fronte solo a un simbolo. Qualche teologo obietta che in nessuna lingua e in nessun popolo il pane e il sangue sono mai stati simboli del corpo e del sangue, per cui sono da intendersi letteralmente. Questo non è del tutto vero. Sia in Babilonia sia in Palestina si vedeva la pigiatura dell’uva come la morte del grappolo che dava il vino, e questo vino era chiamato “sangue dell’uva”. La somiglianza stava nel fatto che aveva lo stesso colore e che era considerato la sorgente vitale della vite. Mosè dice alla discendenza di Giacobbe: “Tu hai bevuto il vino generoso, il sangue dell'uva” (Dt 32:14). In Isaia, al misterioso personaggio che impersona Dio viene domandato: “Perché questo rosso sul tuo mantello e perché le tue vesti sono come quelle di chi calca l'uva nel tino?”; e quello risponde: “Io sono stato solo a calcare l'uva nel tino, e nessun uomo di fra i popoli è stato con me; io li ho calcati nella mia ira, li ho calpestati nel mio furore; il loro sangue è spruzzato sulle mie vesti, ho macchiato tutti i miei abiti” (63:2,3). Nulla quindi di più naturale che usare il vino come simbolo del sangue. E nulla di più naturale per i discepoli comprendere che Yeshùa stava usando il vino come simbolo del “sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati”. Meno naturale era, viceversa, capire il rapporto pane-corpo. Solo dalle circostanze i discepoli potevano conoscere il senso che Yeshùa voleva dare all’espressione: “Questo è il mio corpo”.
Le circostanze della Cena del Signore
Sono proprio le circostanze in cui Yeshùa pronunciò quella frase che c’inducono ad annettere un valore puramente simbolico alle sue parole.
Il clima era quello pasquale. Sebbene quella non fosse la sera di Pasqua, era comunque quella precedente e, mentre fervevano i preparativi, gli ebrei già s’immedesimavano. Ogni cosa era ricolma di atti simbolici: cercare una casa temporanea, celebrare di notte, vegliare, il pane non lievitato per la fretta, l’agnello il cui sangue tenne lontano l’angelo sterminatore, le erbe amare come la schiavitù. E ai bambini che domandavano il senso di quelle cose, gli ebrei dovevano rispondere. “In quel giorno tu spiegherai questo a tuo figlio, dicendo: ‘Si fa così a motivo di quello che il Signore fece per me quando uscii dall'Egitto’. Ciò sarà per te come un segno sulla tua mano, come un ricordo fra i tuoi occhi, affinché la legge del Signore sia nella tua bocca; poiché il Signore ti ha fatto uscire dall'Egitto con mano potente” (Es 13:8,9). In un ambiente così saturo di simbolismi era ben naturale per gli apostoli attribuire un valore simbolico anche agli elementi addotti da Yeshùa, cioè il pane e il vino.
I discepoli compresero bene il senso della nuova istituzione che Yeshùa volle stabilire. Luca riferisce il valore o significato di quei gesti nella spiegazione di Yeshùa stesso: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22:19). Anche Paolo si riferisce alla spiegazione di Yeshùa stesso: “Il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo ruppe e disse: ‘Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me’. Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: ‘Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me’” (1Cor 11:24,25). E Paolo, subito dopo dice: “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice” (v. 26) - non ‘ogni volta che mangiate il corpo e bevete il sangue’, il che sarebbe stato ripugnante, specialmente per un ebreo (in quanto cose contrarie alla Legge).
Dunque, “in memoria”. Va notato che il ricordo o la commemorazione comporta l’assenza della persona ricordata. Quindi, quando si compie la Cena del Signore non siamo nel campo di un cambiamento sostanziale degli elementi, ma nell’ambito di un ricordo. Ciò che si attua mediante il ricordo non è transustanziazione, ma simbolo o segno. Questo ricordo in assenza della persona ricordata si fa finché quella persona è assente. Quando Yeshùa ritornerà, cesserà il ricordo: “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1Cor 11:26). Che cosa poteva dire di più Yeshùa per indicare che si trattava di simboli? Le sue parole vanno intese come voleva che fossero intese e come, di fatto, le intesero i discepoli: siamo di fronte a degli emblemi, a dei simboli.
Nel modo di pensare di un ebreo (e quindi della Bibbia stessa) il senso più naturale di intendere il tutto è in ambito simbolico. Un parallelo lo abbiamo nel modo di esprimersi di Ezechiele: dopo essersi tagliato i capelli e la barba, ne brucia una parte, un’altra la percuote con la spada e una terza la disperde; poi dice (5:5): “Questa è Gerusalemme” (testo originale ebraico: זֹאת יְרוּשָׁלִַם (zot yerushalàim). È lo stesso modo di parlare di Yeshùa: “Io sono la porta” (Gv 10:7). Perfino un occidentale capisce che è simbolico.
Re: Interpretare la Bibbia, alla ricerca di un metodo condiv
Se lo spezzare il Pane fosse solo un simbolo come tu dici, caro Gianni, non avrebbe avuto nessun senso per il Risorto farsi riconoscere dai discepoli di Emmaus tramite quel gesto. Nota che nel brano i discepoli non mangiano il Pane, ma riconoscono Gesù già quando egli lo spezza e lo porge loro:
"Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?»" (Lc 24,30-32).
Ai discepoli di Emmaus si aprono gli occhi solo quando egli rivela la sua identità in un atto, un evento preciso, quello dello spezzare il Pane, dopo aver recitato la preghiera di benedizione. Quei discepoli non erano presenti nel cenacolo con i dodici, quando il Maestro aveva istituito il memoriale, non sapevano pertanto nulla di eventuali gesti simbolici, eppure riconoscono il Risorto. Il senso del brano è pertanto chiarissimo: noi, come i discepoli di Emmaus, possiamo riconoscere l'identità del Risorto nel gesto dello spezzare il Pane, dove si rende realmente presente, dopo che è stata recitata la preghiera di benedizione, cosa che si fa da duemila anni in un luogo ben preciso, che ti lascio immaginare.
"Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?»" (Lc 24,30-32).
Ai discepoli di Emmaus si aprono gli occhi solo quando egli rivela la sua identità in un atto, un evento preciso, quello dello spezzare il Pane, dopo aver recitato la preghiera di benedizione. Quei discepoli non erano presenti nel cenacolo con i dodici, quando il Maestro aveva istituito il memoriale, non sapevano pertanto nulla di eventuali gesti simbolici, eppure riconoscono il Risorto. Il senso del brano è pertanto chiarissimo: noi, come i discepoli di Emmaus, possiamo riconoscere l'identità del Risorto nel gesto dello spezzare il Pane, dove si rende realmente presente, dopo che è stata recitata la preghiera di benedizione, cosa che si fa da duemila anni in un luogo ben preciso, che ti lascio immaginare.
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Re: Interpretare la Bibbia, alla ricerca di un metodo condiv
Solo per chi è in grado di capire ed è disposto a calarsi nel pensiero biblico lasciando da parte le idee religiose:
Il concetto biblico del segno
Per comprendere appieno il concetto di segno biblicamente inteso occorre rifarsi alle categorie mentali del pensiero biblico. È sul concetto di segno che dobbiamo soffermarci.
Il segno biblico, pur non presentando che un’analogia con la realtà significata (con la quale non s’identifica essenzialmente), di fatto, è intimamente legato con tale realtà che in esso viene in un certo modo resa presente (rappresentata: resa presente). Segno e realtà, nel pensiero biblico, formano un tutto unico inscindibile. Ciò costituisce una categoria a parte che non si può ridurre alle nostre categorie mentali (occidentali) di semplice raffigurazione o d’identità essenziale. Nella Bibbia il segno sta di mezzo tra la rappresentazione simbolica pura e semplice e l’identità essenziale. Il segno biblico entra in una categoria di relazione che spesso è stata trasferita nella categoria occidentale dell’essenza oppure nella categoria occidentale della semplice raffigurazione.
Classico è il caso della Cena del Signore. Sono ambedue occidentali (e non bibliche) le categorie in cui si fa ricadere il segno del pane e del vino della Cena del Signore. Da una parte c’è la categoria occidentale dell’essenza, adottata dai cattolici: “Questo è il mio corpo”, “Questo è il mio sangue” (Mt 26:26,28, CEI), in cui pane e vino diventano vero corpo e vero sangue; non dice forse la Bibbia: “è”? E l’occidentale legge alla lettera. Dall’altra parte c’è la categoria, sempre occidentale, della semplice raffigurazione: “Questo significa il mio corpo”, “Questo significa il mio sangue“ (Mt 26:26,28, TNM), in cui si vede una semplice commemorazione intellettuale; non dice forse la Bibbia: “significa”? Queste due categorie (occidentali) sono ben lontane dalla categoria mediorientale e semitica della Scrittura.
Il nome è nella Bibbia “segno” dell’essere con cui il nome in un certo senso s’identifica, per cui nella Scrittura conoscere il nome significa conoscere e partecipare alla potenza dell’essere evocato da tale segno. Il battesimo acquista il suo valore proprio perché è attuato nel “nome di Yeshùa”: “Ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo” (At 2:38). È nel nome di Yeshùa che gli apostoli compiono prodigi e miracoli: “Questo è stato fatto nel nome di Gesù Cristo” (At 4:10). È nel suo nome che si ha la salvezza: “In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati”. - At 4:12.
Il nome divino era – ed è – impronunciabile per ogni ebreo, poiché l’essenza divina trascende ogni capacità umana e non può essere racchiusa in un nome. Nella Scrittura il nome è identico alla natura di un essere, alla sua persona, è come l’intima anima di un individuo. Conoscere il nome è conoscere la sostanza di un individuo, è avere parte alla sua personalità e potenza. È al nome di YHVH che Salomone consacra il suo Tempio: “Fino a quei giorni non era stata costruita una casa al nome del Signore” (1Re 3:2). Quando Dio prende possesso del Tempio vi pone il suo nome: “Luogo che il Signore, il vostro Dio, avrà scelto fra tutte le vostre tribù, per mettervi il suo nome”, “Scelto per porvi il suo nome”, “Luogo che il Signore, il tuo Dio, avrà scelto per stabilirvi il suo nome” (Dt 12:5,21;14:24); “Questa casa, sul luogo di cui dicesti: Qui sarà il mio nome!” (1Re 8:29). La Scrittura dice che Dio fa abitare il suo nome nel Tempio: “Luogo che egli avrà scelto come dimora del suo nome” (Dt 14:23). Nel mondo a venire “Gerusalemme sarà chiamata: Il trono del Signore; e tutte le genti si accoglieranno a lei, al Nome del Signore in Gerusalemme” (Ger 3:17, Did; cfr. TNM; “al nome”, e non “nel nome” come in CEI e NR). È nel nome di YHVH che Israele confidava; Israele bramava il nome di Dio, vale a dire Dio stesso:
“Abbiamo confidato nel suo santo nome” Sl 33:21
“Abbiamo sperato in te” Is 26:8
(TNM)
Dato che, secondo il concetto biblico, il nome è sinonimo della persona stessa, è il nome di Dio che agisce potentemente. È il suo nome che sostiene il re: “Ti protegga il nome dell’Iddio di Giacobbe” (Sl 20:1, TNM). È il nome di Dio che opera miracoli in Israele: “Loderete il nome del Signore, vostro Dio, che avrà operato per voi meraviglie”. - Gle 2:26.
Lo stesso concetto ebraico lo troviamo ovviamente anche nelle Scritture Greche. Dio delega il suo potere all’uomo Yeshùa il cui nome è possente e unico tra gli esseri umani: “Non c’è sotto il cielo nessun altro nome dato fra gli uomini” (At 4:12, TNM), “Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome” (Flp 2:9). Questo potere divino insito nel nome sarà ripreso da Dio stesso dopo che Yeshùa avrà sbaragliato tutti i nemici: “Poi verrà la fine, quando consegnerà il regno nelle mani di Dio Padre […]. Poiché bisogna ch'egli regni finché abbia messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. […] Quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti”. - 1Cor 15:24-28; cfr. Ap 3:12.
Anche le azioni simboliche dei profeti racchiudono in sé la realtà profetizzata. Le frecce, scagliate da Ioas in direzione di Aman, racchiudevano in loro stesse (e, in un certo senso s’identificavano) con le vittorie israelitiche sugli aramei. Da qui l’ira di Eliseo nel vedere che Ioas alla terza freccia si ferma: compiuto tale segno diverrà ineluttabile che solo tre saranno le vittorie del re d’Israele sulla potenza nemica che non potrà più essere debellata del tutto. “Avresti dovuto percuoterlo” – continua Eliseo - “cinque o sei volte; allora tu avresti sconfitto i Siri fino a sterminarli; mentre adesso non li sconfiggerai che tre volte”. - 2Re 13:14-19.
Quando gli ebrei celebrano ancora oggi la Cena Pasquale riproducono l’azione compiuta dagli ebrei quando furono liberati dalla schiavitù egizia dalla mano potente del loro Dio. Ma tale “segno” ha in sé la stessa carica salvifica di quel primo gesto attuato dagli israeliti prima della loro liberazione. Tale segno rende partecipi tutti gli ebrei ai benefici effetti di quella liberazione miracolosa. Il padre di famiglia è invitato a spiegare al figlio che ciò si faceva “A motivo di quello che il Signore fece per me quando uscii dall'Egitto” (Es 13:8). Si noti attentamente - e ci si commuova, se si riesce a comprendere l’efficacia del segno biblico – cosa dice ogni ebreo anche oggi, a distanza di millenni: “Per me”, “quello che il Signore fece per me quando uscii dall’Egitto”. Rabbi Gamaliele aggiungeva: “Ogni generazione deve considerarsi come una generazione uscita dall’Egitto, ogni persona di Israele deve conoscere che è stata liberata dalla schiavitù”. - Pesachìm X, 5b.
Non era e non è in virtù di un’identificazione collettiva che l’ebreo si sentiva liberato dalla schiavitù egiziana, ma per il fatto che nel momento liturgico della Cena Pasquale egli sentiva dispiegarsi e riprodursi la potenza divina della prima celebrazione pasquale. L’ebreo si ricorda di quell’evento: “Ricordate questo giorno” (Es 13:3). Il ricordarsi non è un semplice andare con la mente al fatto, ma un riviverlo.
Lo stesso concetto ebraico si applica alla Cena del Signore: “In ricordo di me” (1Cor 11:25, TNM). Non si tratta semplicemente di commemorare, secondo la mentalità occidentale. Il greco dice εἰς τὴν ἐμὴν ἀνάμνησιν (èis ten emèn anàmnesin). Vi compare quell’èis (εἰς) che significa “verso”, “per”. E vi compare quell’anàmnesin composto da anà (ἀνά), “in mezzo” (“fra”), e da una parola derivata dal verbo μιμνῄσκομαι (mimnèskomai), “essere un ricordo”. Il senso letterale è: “Verso l’essere il mio ricordo in mezzo”. “Fate questo, ogni volta che ne berrete, per [rendere presente] il mio ricordo in mezzo [a voi]” (1Cor 11:25, traduzione dal greco). “Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore” (v. 26): καταγγέλλετε (katanghèllete): “rendete noto”. Si tratta di un rivivere, di un rendere presente. Il significato ebraico del rivivere è ben diverso da una semplice cerimonia occidentale in cui le persone stanno lì a sentire un discorso in una commemorazione. Questo rivivere la morte di Yeshùa non è per nulla un ripetere la sua morte avvenuta una volta sola nel passato: “Non è per offrire se stesso spesso […]. Altrimenti, egli avrebbe dovuto soffrire spesso dalla fondazione del mondo. Ma ora si è manifestato una volta per sempre” (Eb 9:25,26, TNM). Non si tratta ripetere, ma si tratta piuttosto di rendere presente e attuale quell’evento del passato facendolo rivivere oggi.
Anche il battesimo è un “segno” perché esteriormente raffigura la morte e la resurrezione di Yeshùa mediante il rito dell’immersione-emersione, cui il credente viene innestato. La sepoltura vi prende il posto della morte perché era più facile attuarla così e anche perché è un morto che si seppellisce, non un vivente. Mediante questa rappresentazione esteriore il battesimo rende presente e attuale la morte e la resurrezione di Yeshùa in cui ogni battezzando s’immedesima. Che questa suggestione sia esatta è insito nel termine ὁμοίωμα (omòioma) con cui il battesimo viene presentato da parte di Paolo. Il termine omòioma non indica solo “somiglianza”: “Siamo stati uniti a lui nella somiglianza della sua morte” (Rm 6:5, TNM). Omòioma indica un atto che in un certo senso s’identifica con la realtà, che nel caso presente è appunto la morte e la resurrezione di Yeshùa. Omòioma indica la riproduzione il più possibile vicina alla realtà rappresentata, dalla quale riceve efficacia e valore. L’immersione ed emersione battesimale sono l’aspetto esteriore assunto dalla morte e resurrezione di Yeshùa per agire sul credente che si fa battezzare. “Se per l’immagine siamo divenuti partecipi della sua morte, così saremo [partecipi] pure della sua resurrezione”. - Rm 6:5, traduzione dal greco.
L’omòioma biblico, più che assumere il valore astratto di “somiglianza”, indica un atto esterno e concreto che riproduce in modo visibile la morte e la resurrezione del Cristo con le quali in maniera relazionale si identifica. Noi siamo stati piantati assieme a lui nella morte di Yeshùa non tramite la nostra morte fisica, ma tramite la riproduzione di essa che si ha nell’immersione battesimale.
Mentre per l’occidentale la “raffigurazione” o “immagine” è sempre considerata come qualcosa di distinto e separato dalla realtà rappresentata, per l’orientale essa s’identifica in un certo senso con la realtà, è il modo con cui la realtà diviene visibile e operante sulla persona. Se ciò si attua in ogni “raffigurazione” anche umana, tanto più si avvera quando tale “raffigurazione” è stata voluta e stabilita da Dio.
Nell’atto battesimale Paolo si rifà alla categoria semitica del “segno” che, per la sua relazione essenziale con la realtà, la riproduce e in un certo senso la rende presente. Per Paolo il battesimo non è una realtà distinta dalla morte e dalla resurrezione di Yeshùa, ma è il mezzo con cui l’identica, e l’irripetibile realtà della morte e della resurrezione di Yeshùa è resa presente perché possa operare nelle singole persone che rinascono in Cristo.
Non è che i battezzandi siano misteriosamente riportati indietro nel passato in modo da essere associati alla morte e alla resurrezione storiche di Yeshùa, ma sono la morte e la resurrezione del Cristo che vengono in un certo modo rese presenti e attuali nel segno e possono quindi operare nel battezzando che vi viene innestato.
In quel momento il battezzando diviene solidale con la morte di Yeshùa, con lui muore alla vita terrena di Adamo, e con lui risorge alla vita ultraterrena e soprannaturale che è propria di Yeshùa e che si disgelerà nel giorno della resurrezione finale. Ma questa resurrezione finale non sarà altro che lo svelarsi di quei germi di vita che la persona battezzata ha ricevuto nel battesimo tramite il suo innesto alla resurrezione di Yeshùa.
Questa comprensione del significato del segno battesimale spiega appieno tutti i passi biblici che non solo parlano del nostro innesto alla morte e alla resurrezione di Yeshùa, ma anche lo ricollegano al rito del battesimo.
Si può parlare di morte fisica e di morte spirituale del credente? La morte spirituale al peccato non è altro che la conseguenza del nostro innesto alla morte fisica di Yeshùa, il quale trascina con sé l’eliminazione della pena di morte propria dell’essere umano decaduto. Il credente non si unisce alla riproduzione della morte di Yeshùa, ma tramite la riproduzione battesimale s’innesta e partecipa alla morte fisica e alla resurrezione fisica di Yeshùa avvenute circa duemila anni or sono e che vengono in un certo senso rese presenti nel segno dell’immersione ed emersione battesimali.
Il segno non ha, infatti, valore in se stesso, ma solo nel suo rapporto con la realtà raffigurata da cui trae la sua efficacia. Perciò il credente che si battezza, tramite il segno si collega agli eventi fatidici di quel tragico pomeriggio in cui Yeshùa morì e di quel meraviglioso tardo pomeriggio di tre giorni dopo in cui fu resuscitato. Assieme al Cristo lui pure muore e assieme al Cristo lui pure risorge, per cui – annientati i vincoli che prima lo tenevano avvinto alla morte terrena – in lui fanno irruzione le forze vivificanti che hanno tratto Yeshùa dal sepolcro. Per il battezzato e per la battezzata valgono le parole di Yeshùa: “Chi crede in me, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai” (Gv 11:25,26). “Chi crede”: tempo presente con il valore continuativo proprio dell’indicativo presente: “Chi continua a credere”. Chi continua a credere. Fino alla fine.
Il concetto biblico del segno
Per comprendere appieno il concetto di segno biblicamente inteso occorre rifarsi alle categorie mentali del pensiero biblico. È sul concetto di segno che dobbiamo soffermarci.
Il segno biblico, pur non presentando che un’analogia con la realtà significata (con la quale non s’identifica essenzialmente), di fatto, è intimamente legato con tale realtà che in esso viene in un certo modo resa presente (rappresentata: resa presente). Segno e realtà, nel pensiero biblico, formano un tutto unico inscindibile. Ciò costituisce una categoria a parte che non si può ridurre alle nostre categorie mentali (occidentali) di semplice raffigurazione o d’identità essenziale. Nella Bibbia il segno sta di mezzo tra la rappresentazione simbolica pura e semplice e l’identità essenziale. Il segno biblico entra in una categoria di relazione che spesso è stata trasferita nella categoria occidentale dell’essenza oppure nella categoria occidentale della semplice raffigurazione.
Classico è il caso della Cena del Signore. Sono ambedue occidentali (e non bibliche) le categorie in cui si fa ricadere il segno del pane e del vino della Cena del Signore. Da una parte c’è la categoria occidentale dell’essenza, adottata dai cattolici: “Questo è il mio corpo”, “Questo è il mio sangue” (Mt 26:26,28, CEI), in cui pane e vino diventano vero corpo e vero sangue; non dice forse la Bibbia: “è”? E l’occidentale legge alla lettera. Dall’altra parte c’è la categoria, sempre occidentale, della semplice raffigurazione: “Questo significa il mio corpo”, “Questo significa il mio sangue“ (Mt 26:26,28, TNM), in cui si vede una semplice commemorazione intellettuale; non dice forse la Bibbia: “significa”? Queste due categorie (occidentali) sono ben lontane dalla categoria mediorientale e semitica della Scrittura.
Il nome è nella Bibbia “segno” dell’essere con cui il nome in un certo senso s’identifica, per cui nella Scrittura conoscere il nome significa conoscere e partecipare alla potenza dell’essere evocato da tale segno. Il battesimo acquista il suo valore proprio perché è attuato nel “nome di Yeshùa”: “Ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo” (At 2:38). È nel nome di Yeshùa che gli apostoli compiono prodigi e miracoli: “Questo è stato fatto nel nome di Gesù Cristo” (At 4:10). È nel suo nome che si ha la salvezza: “In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati”. - At 4:12.
Il nome divino era – ed è – impronunciabile per ogni ebreo, poiché l’essenza divina trascende ogni capacità umana e non può essere racchiusa in un nome. Nella Scrittura il nome è identico alla natura di un essere, alla sua persona, è come l’intima anima di un individuo. Conoscere il nome è conoscere la sostanza di un individuo, è avere parte alla sua personalità e potenza. È al nome di YHVH che Salomone consacra il suo Tempio: “Fino a quei giorni non era stata costruita una casa al nome del Signore” (1Re 3:2). Quando Dio prende possesso del Tempio vi pone il suo nome: “Luogo che il Signore, il vostro Dio, avrà scelto fra tutte le vostre tribù, per mettervi il suo nome”, “Scelto per porvi il suo nome”, “Luogo che il Signore, il tuo Dio, avrà scelto per stabilirvi il suo nome” (Dt 12:5,21;14:24); “Questa casa, sul luogo di cui dicesti: Qui sarà il mio nome!” (1Re 8:29). La Scrittura dice che Dio fa abitare il suo nome nel Tempio: “Luogo che egli avrà scelto come dimora del suo nome” (Dt 14:23). Nel mondo a venire “Gerusalemme sarà chiamata: Il trono del Signore; e tutte le genti si accoglieranno a lei, al Nome del Signore in Gerusalemme” (Ger 3:17, Did; cfr. TNM; “al nome”, e non “nel nome” come in CEI e NR). È nel nome di YHVH che Israele confidava; Israele bramava il nome di Dio, vale a dire Dio stesso:
“Abbiamo confidato nel suo santo nome” Sl 33:21
“Abbiamo sperato in te” Is 26:8
(TNM)
Dato che, secondo il concetto biblico, il nome è sinonimo della persona stessa, è il nome di Dio che agisce potentemente. È il suo nome che sostiene il re: “Ti protegga il nome dell’Iddio di Giacobbe” (Sl 20:1, TNM). È il nome di Dio che opera miracoli in Israele: “Loderete il nome del Signore, vostro Dio, che avrà operato per voi meraviglie”. - Gle 2:26.
Lo stesso concetto ebraico lo troviamo ovviamente anche nelle Scritture Greche. Dio delega il suo potere all’uomo Yeshùa il cui nome è possente e unico tra gli esseri umani: “Non c’è sotto il cielo nessun altro nome dato fra gli uomini” (At 4:12, TNM), “Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome” (Flp 2:9). Questo potere divino insito nel nome sarà ripreso da Dio stesso dopo che Yeshùa avrà sbaragliato tutti i nemici: “Poi verrà la fine, quando consegnerà il regno nelle mani di Dio Padre […]. Poiché bisogna ch'egli regni finché abbia messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. […] Quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti”. - 1Cor 15:24-28; cfr. Ap 3:12.
Anche le azioni simboliche dei profeti racchiudono in sé la realtà profetizzata. Le frecce, scagliate da Ioas in direzione di Aman, racchiudevano in loro stesse (e, in un certo senso s’identificavano) con le vittorie israelitiche sugli aramei. Da qui l’ira di Eliseo nel vedere che Ioas alla terza freccia si ferma: compiuto tale segno diverrà ineluttabile che solo tre saranno le vittorie del re d’Israele sulla potenza nemica che non potrà più essere debellata del tutto. “Avresti dovuto percuoterlo” – continua Eliseo - “cinque o sei volte; allora tu avresti sconfitto i Siri fino a sterminarli; mentre adesso non li sconfiggerai che tre volte”. - 2Re 13:14-19.
Quando gli ebrei celebrano ancora oggi la Cena Pasquale riproducono l’azione compiuta dagli ebrei quando furono liberati dalla schiavitù egizia dalla mano potente del loro Dio. Ma tale “segno” ha in sé la stessa carica salvifica di quel primo gesto attuato dagli israeliti prima della loro liberazione. Tale segno rende partecipi tutti gli ebrei ai benefici effetti di quella liberazione miracolosa. Il padre di famiglia è invitato a spiegare al figlio che ciò si faceva “A motivo di quello che il Signore fece per me quando uscii dall'Egitto” (Es 13:8). Si noti attentamente - e ci si commuova, se si riesce a comprendere l’efficacia del segno biblico – cosa dice ogni ebreo anche oggi, a distanza di millenni: “Per me”, “quello che il Signore fece per me quando uscii dall’Egitto”. Rabbi Gamaliele aggiungeva: “Ogni generazione deve considerarsi come una generazione uscita dall’Egitto, ogni persona di Israele deve conoscere che è stata liberata dalla schiavitù”. - Pesachìm X, 5b.
Non era e non è in virtù di un’identificazione collettiva che l’ebreo si sentiva liberato dalla schiavitù egiziana, ma per il fatto che nel momento liturgico della Cena Pasquale egli sentiva dispiegarsi e riprodursi la potenza divina della prima celebrazione pasquale. L’ebreo si ricorda di quell’evento: “Ricordate questo giorno” (Es 13:3). Il ricordarsi non è un semplice andare con la mente al fatto, ma un riviverlo.
Lo stesso concetto ebraico si applica alla Cena del Signore: “In ricordo di me” (1Cor 11:25, TNM). Non si tratta semplicemente di commemorare, secondo la mentalità occidentale. Il greco dice εἰς τὴν ἐμὴν ἀνάμνησιν (èis ten emèn anàmnesin). Vi compare quell’èis (εἰς) che significa “verso”, “per”. E vi compare quell’anàmnesin composto da anà (ἀνά), “in mezzo” (“fra”), e da una parola derivata dal verbo μιμνῄσκομαι (mimnèskomai), “essere un ricordo”. Il senso letterale è: “Verso l’essere il mio ricordo in mezzo”. “Fate questo, ogni volta che ne berrete, per [rendere presente] il mio ricordo in mezzo [a voi]” (1Cor 11:25, traduzione dal greco). “Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore” (v. 26): καταγγέλλετε (katanghèllete): “rendete noto”. Si tratta di un rivivere, di un rendere presente. Il significato ebraico del rivivere è ben diverso da una semplice cerimonia occidentale in cui le persone stanno lì a sentire un discorso in una commemorazione. Questo rivivere la morte di Yeshùa non è per nulla un ripetere la sua morte avvenuta una volta sola nel passato: “Non è per offrire se stesso spesso […]. Altrimenti, egli avrebbe dovuto soffrire spesso dalla fondazione del mondo. Ma ora si è manifestato una volta per sempre” (Eb 9:25,26, TNM). Non si tratta ripetere, ma si tratta piuttosto di rendere presente e attuale quell’evento del passato facendolo rivivere oggi.
Anche il battesimo è un “segno” perché esteriormente raffigura la morte e la resurrezione di Yeshùa mediante il rito dell’immersione-emersione, cui il credente viene innestato. La sepoltura vi prende il posto della morte perché era più facile attuarla così e anche perché è un morto che si seppellisce, non un vivente. Mediante questa rappresentazione esteriore il battesimo rende presente e attuale la morte e la resurrezione di Yeshùa in cui ogni battezzando s’immedesima. Che questa suggestione sia esatta è insito nel termine ὁμοίωμα (omòioma) con cui il battesimo viene presentato da parte di Paolo. Il termine omòioma non indica solo “somiglianza”: “Siamo stati uniti a lui nella somiglianza della sua morte” (Rm 6:5, TNM). Omòioma indica un atto che in un certo senso s’identifica con la realtà, che nel caso presente è appunto la morte e la resurrezione di Yeshùa. Omòioma indica la riproduzione il più possibile vicina alla realtà rappresentata, dalla quale riceve efficacia e valore. L’immersione ed emersione battesimale sono l’aspetto esteriore assunto dalla morte e resurrezione di Yeshùa per agire sul credente che si fa battezzare. “Se per l’immagine siamo divenuti partecipi della sua morte, così saremo [partecipi] pure della sua resurrezione”. - Rm 6:5, traduzione dal greco.
L’omòioma biblico, più che assumere il valore astratto di “somiglianza”, indica un atto esterno e concreto che riproduce in modo visibile la morte e la resurrezione del Cristo con le quali in maniera relazionale si identifica. Noi siamo stati piantati assieme a lui nella morte di Yeshùa non tramite la nostra morte fisica, ma tramite la riproduzione di essa che si ha nell’immersione battesimale.
Mentre per l’occidentale la “raffigurazione” o “immagine” è sempre considerata come qualcosa di distinto e separato dalla realtà rappresentata, per l’orientale essa s’identifica in un certo senso con la realtà, è il modo con cui la realtà diviene visibile e operante sulla persona. Se ciò si attua in ogni “raffigurazione” anche umana, tanto più si avvera quando tale “raffigurazione” è stata voluta e stabilita da Dio.
Nell’atto battesimale Paolo si rifà alla categoria semitica del “segno” che, per la sua relazione essenziale con la realtà, la riproduce e in un certo senso la rende presente. Per Paolo il battesimo non è una realtà distinta dalla morte e dalla resurrezione di Yeshùa, ma è il mezzo con cui l’identica, e l’irripetibile realtà della morte e della resurrezione di Yeshùa è resa presente perché possa operare nelle singole persone che rinascono in Cristo.
Non è che i battezzandi siano misteriosamente riportati indietro nel passato in modo da essere associati alla morte e alla resurrezione storiche di Yeshùa, ma sono la morte e la resurrezione del Cristo che vengono in un certo modo rese presenti e attuali nel segno e possono quindi operare nel battezzando che vi viene innestato.
In quel momento il battezzando diviene solidale con la morte di Yeshùa, con lui muore alla vita terrena di Adamo, e con lui risorge alla vita ultraterrena e soprannaturale che è propria di Yeshùa e che si disgelerà nel giorno della resurrezione finale. Ma questa resurrezione finale non sarà altro che lo svelarsi di quei germi di vita che la persona battezzata ha ricevuto nel battesimo tramite il suo innesto alla resurrezione di Yeshùa.
Questa comprensione del significato del segno battesimale spiega appieno tutti i passi biblici che non solo parlano del nostro innesto alla morte e alla resurrezione di Yeshùa, ma anche lo ricollegano al rito del battesimo.
Si può parlare di morte fisica e di morte spirituale del credente? La morte spirituale al peccato non è altro che la conseguenza del nostro innesto alla morte fisica di Yeshùa, il quale trascina con sé l’eliminazione della pena di morte propria dell’essere umano decaduto. Il credente non si unisce alla riproduzione della morte di Yeshùa, ma tramite la riproduzione battesimale s’innesta e partecipa alla morte fisica e alla resurrezione fisica di Yeshùa avvenute circa duemila anni or sono e che vengono in un certo senso rese presenti nel segno dell’immersione ed emersione battesimali.
Il segno non ha, infatti, valore in se stesso, ma solo nel suo rapporto con la realtà raffigurata da cui trae la sua efficacia. Perciò il credente che si battezza, tramite il segno si collega agli eventi fatidici di quel tragico pomeriggio in cui Yeshùa morì e di quel meraviglioso tardo pomeriggio di tre giorni dopo in cui fu resuscitato. Assieme al Cristo lui pure muore e assieme al Cristo lui pure risorge, per cui – annientati i vincoli che prima lo tenevano avvinto alla morte terrena – in lui fanno irruzione le forze vivificanti che hanno tratto Yeshùa dal sepolcro. Per il battezzato e per la battezzata valgono le parole di Yeshùa: “Chi crede in me, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai” (Gv 11:25,26). “Chi crede”: tempo presente con il valore continuativo proprio dell’indicativo presente: “Chi continua a credere”. Chi continua a credere. Fino alla fine.
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Re: Interpretare la Bibbia, alla ricerca di un metodo condiv
SE ogni studioso serio, compresi i cattolici, parlano di ermeneutica ... di esegesi ( ma anche solo il fatto stesso che gli studiosi esistono) , ciò è una chiara evidenza che per comprendere le scritture a fondo ci vogliono studi, tempo e dedizione. Se non si ha fede che nelle scritture troviamo la parola di Dio non ci può essere nulla di forte che ci spinge a studiarle. Se io non avessi fede in Dio e non credessi che nella bibbia trovo scritto ciò che lo riguarda, chi me lo farebbe fare a dedicarvi tutto questo tempo per lo studio? Avrei tanto altro da fare come molti altri qui. C'è un'eccezione però. L'interesse alle scritture può essere dovuto anche alla presa di potere .... ed al mantenimento dello stesso. Perchè la fede in senso generale è sì la forza di una persona ma può essere anche il suo tallone di Achille. Lo vediamo oggi.
Se è vero ciò che afferma Vittorio non ci sarebbe bisogno di alcuno studio. Se solo con L'eucarestia possiamo avere la comprensione delle scritture perchè il futuro prete , vescovo , arcivescovo e poi forse papa devono iniziare ad andare in seminario? perchè tutti questi studi? Migliani o milioni di persone partecipano all'eucarestia. Facciamo un piccolo sondaggio e vediamo cosa hanno capito tutti questi. forse un 5% ha letto le scritture ed un 10% è forse interessato realmente. Tra questi ultimi ci sono poi discordanze. Partendo da questa semplice constatazione, commento quanto è stato riportato.
Gianni è uno studioso molto preparato e le sue spiegazioni forse possono spaventare. Non ci sarebbe nulla da aggiungere su quanto scritto da Gianni in quanto il discorso è molto chiaro. Ma nelle parole di Stella si può intuire come col cuore e con la lettura abbia capito il senso. Perchè? Perchè non si è messa il velo religioso ma si è sforzata a comprendere con volontà senza voler difendere alcuna dottrina.
Con tutto il rispetto per Vittorio credo che ciò che è stato riportato da lui ha dell'incredibile.
A parte che la santa cena è avvenuta ancor prima che accadesse l'evento, a parte che Yeshùa era ancora "vivo" nel senso di condizione come la nostra (non ancora risorto), cosa c'entra la comprensione delle scritture con l'eucaristia? Yeshùa spiegava le scritture "parlando" e nonostante tutto molti non capivano. Oggi è vero che EGLI è vivo ma in altra condizione (spirituale). Egli è presente , accanto a noi spiritualmente.
Cosa c'entra la comprensione delle scritture? Quando era ancora sulla terra in carne ed ossa come noi egli spiegava nella sua lingua e il suo stesso popolo faceva fatica a capire .
Cosa c'entra che viene riconosciuto perchè spezza il pane? COsa ci sarebbe di strano se una persona viene riconosciuta da un gesto che la stessa aveva fatto in un certo modo in passato?
Ragazzi, non è ora che cerchiamo davvero di comprendere le scritture senza veli religiosi? C'è gente che vuole capire davvero e vi dedica del tempo allo studio. Dedica del tempo anche per scrivere qui.Le dottrine religiose sono le toppe dei popoli .
E ci credo che gli ebrei divergono completamente dall'ideologia cristiana perchè fin dai tempi antichi hanno dovuto far fronte alle storpiature delle scritture .
Se è vero ciò che afferma Vittorio non ci sarebbe bisogno di alcuno studio. Se solo con L'eucarestia possiamo avere la comprensione delle scritture perchè il futuro prete , vescovo , arcivescovo e poi forse papa devono iniziare ad andare in seminario? perchè tutti questi studi? Migliani o milioni di persone partecipano all'eucarestia. Facciamo un piccolo sondaggio e vediamo cosa hanno capito tutti questi. forse un 5% ha letto le scritture ed un 10% è forse interessato realmente. Tra questi ultimi ci sono poi discordanze. Partendo da questa semplice constatazione, commento quanto è stato riportato.
Gianni è uno studioso molto preparato e le sue spiegazioni forse possono spaventare. Non ci sarebbe nulla da aggiungere su quanto scritto da Gianni in quanto il discorso è molto chiaro. Ma nelle parole di Stella si può intuire come col cuore e con la lettura abbia capito il senso. Perchè? Perchè non si è messa il velo religioso ma si è sforzata a comprendere con volontà senza voler difendere alcuna dottrina.
Con tutto il rispetto per Vittorio credo che ciò che è stato riportato da lui ha dell'incredibile.
A parte che la santa cena è avvenuta ancor prima che accadesse l'evento, a parte che Yeshùa era ancora "vivo" nel senso di condizione come la nostra (non ancora risorto), cosa c'entra la comprensione delle scritture con l'eucaristia? Yeshùa spiegava le scritture "parlando" e nonostante tutto molti non capivano. Oggi è vero che EGLI è vivo ma in altra condizione (spirituale). Egli è presente , accanto a noi spiritualmente.
Cosa c'entra la comprensione delle scritture? Quando era ancora sulla terra in carne ed ossa come noi egli spiegava nella sua lingua e il suo stesso popolo faceva fatica a capire .
Cosa c'entra che viene riconosciuto perchè spezza il pane? COsa ci sarebbe di strano se una persona viene riconosciuta da un gesto che la stessa aveva fatto in un certo modo in passato?
Ragazzi, non è ora che cerchiamo davvero di comprendere le scritture senza veli religiosi? C'è gente che vuole capire davvero e vi dedica del tempo allo studio. Dedica del tempo anche per scrivere qui.Le dottrine religiose sono le toppe dei popoli .
E ci credo che gli ebrei divergono completamente dall'ideologia cristiana perchè fin dai tempi antichi hanno dovuto far fronte alle storpiature delle scritture .
Ultima modifica di chelaveritàtrionfi il giovedì 16 luglio 2015, 22:15, modificato 2 volte in totale.
Per me contano i documenti scritti perchè li possa verificare. "Ora i bereani .. accolsero il messaggio con grande entusiasmo e esaminarono ogni giorno le Scritture per vedere se questi insegnamenti erano veri". Atti 17:11 BSB
Re: Interpretare la Bibbia, alla ricerca di un metodo condiv
Siccome questo è un forum biblico, a sostegno delle mie affermazioni ho fatto solo citazioni bibliche, altri invece hanno fatto lunghe elucubrazioni extrabibliche, o postato link a macchinette parlanti, quindi ora proseguo con il mio discorso, perfettamente coerente con le Scritture, sul metodo da usare per capire le Scritture, che deve partire, come ho detto, dalla fede in Cristo Risorto.