.. GESU' ci ha lasciato due ''cerimonie''' il battesimo ''immersione'' ...e la s.cena , ''spezzare il pane'''...
.sono ancora qui a meditare sul pane ,sullo '''spezzare il pane''..mi piace approfondire scavare e leggere cosa scrivono dicono gli studiosi...su cio'
gia' da sola ci studio su' e mi dico ,no non puo' essere solo un'attimo simbolico ...ma ha un significato profondo ...
forse e li che ci dobbiamo davvero soffermare ...entrare nel profondo ,non badare solo ai piccoli dettagli esteriori ..
il pane ,lievito ,senza lievito ..il vino era mosto ,era vino ...

,ma cosa ci vuole dire cosa mi dice a me oggi ...
come ho detto leggevo ,no non voglio descrivervi tutto ,ma condivido con voi qualcosa di ENZO BIANCHI ,si cattolico ,non spaventatevi ...io leggo anche cio' che scrivono i ''cattolici'' ...
il cattolicesimo non e' fatto solo di statue santi processioni ecc..ecc.. (( perche' se la pensate cosi ,allora non conoscete l'altra faccia della medaglia )) ..
ma ci sono delle persone che vivono il cristianesimo in modo esemplare ..
TRA I TANTI ,MI PIACE ENZO BIANCHI ,non ho ancora il ''libro SPEZZARE IL PANE ' ma a maggio saro' in italia ...
solo una piccola introduzione
Il nostro tempo è il tempo, come scriveva Piero Camporesi, di una nuova “religione del corpo”. L’attenzione salutista estrema per il proprio corpo sembra, infatti, bilanciare il culto dell’abbondanza alimentare, sino al limite dello spreco, che caratterizza l’Occidente. Il Dio di questa nuova religione è l’immagine e l’efficienza prestazionale del corpo-magro, disciplinato nel suo appetito, obbligato a diete perpetue, ridotto alla compattezza minerale di una fascio di nervi e ossa. E’ questo uno degli idoli più spettrale che incombe sulla tavola dell’Occidente. Lo constatano gli antropologi da tempo: si mangia sempre più velocemente e sempre più soli. Il luogo simbolico della tavola e il suo rituale viene disertato e offeso. Il nostro tempo è il tempo del tramonto del Convivio dove la parola si alternava all’atto del condividere il cibo. L’affermazione del corpo in forma, del corpo-fitness, sempre in gara, del corpo-anoressico, ma anche di quello, altrettanto diffuso, del corpo-bulimico preso nell’abbuffata compulsiva e vorace, nella divorazione illimitata, del consumo senza sapore, hanno reso il tempo collettivo della commensalità inutile e ingombrante. Meglio mangiare soli, meglio mangiare senza l’Altro.
Contro questa cifra disperata del nostro tempo si muove, con la consueta forza e sapienza biblica, l’ultimo libro di Enzo Bianchi, Priore di Bose, che ci conduce ad esplorare uno dei gesti più alti e, insieme, più semplici dell’insegnamento di Gesù Cristo: quello di “spezzare il pane”. Diversamente dalla nuova “religione del corpo” che ha sostituito al Dio della parola, l’idolo del corpo-magro o quello del corpo-ingozzato, il priore di Bose ci mostra in tutte le sue pieghe l’amore umanissimo di Gesù verso la tavola. “Spezzare il pane” è, infatti, l’atto che istituisce la tavola come luogo dell’Altro. Nel gesto di offrire il pane a chi è a tavola con noi, l’atto del mangiare trascende immediatamente la semplice necessità di nutrirsi, il piano del puro bisogno animale, per acquisire il significato evangelico dell’accoglienza dello straniero, del povero, dell’abbandonato .
La radice ultima di tutta la predicazione di Enzo Bianchi, dei suoi studi biblici e del suo lavoro di scrittura, è sempre la stessa: ritornare all’umanità di Cristo, al Verbo che si fa carne. In questo senso egli ci dice che Dio non è solo “luce” o “logos”, ma è anche “vino” e “pane”, perché il pane, essendo un dono di Dio, e il primo “volto del Signore”. Il banchetto non è allora il luogo del vizio o del peccato perché il suo compito è quello di “cantare il sapore del mondo”. Il cristianesimo di Bianchi è immanentista, avverso ad ogni forma astratta di spiritualismo, radicalmente anti-platonico, profondamente umanista sebbene mai antropocentrico. Egli detesta la riduzione della religione ad una ritualità vuota e inutilmente sacrificale. La sua passione cristiana è animata da un desiderio che sa caricare eroticamente sia il mondo che le relazioni tra gli esseri umani.
E’ lo sguardo del monaco che sa cogliere tutta la potenza dell’enigma dell’incarnazione dove l’infinito non può essere colto dall’astrazione teologica, né dalla pura teoresi speculativa, ma solo attraverso il corpo dell’evento del mondo. Per questo il suo primo ammonimento è quello di non dimenticare la terra, di non ridurla a mera risorsa da sfruttare, di non annientarla. Perché è la terra, ci dice, il primo vero nome dell’Altro a cui l’umano è esposto. La violenza accade originariamente nel voler sostituire la necessità di abitare la terra – come “ospiti” e “pellegrini” - con l’impeto di chi pretende di ergersi a suo padrone incontrastato. Per questo la terra, come il pane, è di tutti. “Il termine adam - spiega Bianchi - non dovremmo renderlo con “uomo”, ma con “terrestre”. La terra non è solo polvere, roccia, sabbia – come si pensa – ma è un organismo vivente, che dobbiamo rispettare, amare, contemplare e, soprattutto, sentire solidale con noi”. Si tratta - ricordando l’amore di Gesù per la tavola che scatenava l’ironia sferzante dei suoi nemici che lo consideravano un “mangione e un beone” - di “sviluppare il Vangelo della terra”, di dare parola ad “un nuovo ethos della terra”. Per questa ragione Gesù poteva dichiarare – come ricorda l’evangelista Marco citato da Bianchi – “puri tutti gli alimenti”. Se il miracolo di Dio è il miracolo del mondo, è il miracolo dell’evento del mondo, nulla è impuro. L’impuro, infatti, non è mai ciò che entra nel corpo dell’uomo, ma solo ciò che esce dal suo cuore. Anche in questo senso l’ascesi di Socrate che accompagna il suo ultimo gesto estremo (avvelenarsi bevendo la cicuta per invocare il rispetto della Legge della polis) ci appare così diversa dalla passione di Cristo. Quest’ultimo, prima di incamminarsi verso la solitudine straziante dei Gestemani e del calvario della croce, sceglie la via della condivisione con i suoi discepoli; sceglie la via dell’ultima cena, dello stare assieme a chi lo ha amato. Non sceglie la via del gesto solitario, ma decide di offrire a chi è con lui il vino e il pane del proprio corpo che la memoria dovrà riuscire a conservare nei tempi a venire. In questo senso lo sguardo cristiano di Bianchi non è mai semplicemente nostalgico perché la lezione di Gesù è innanzitutto quella di sostenere una promessa che non si rivolge al passato ma investe l’orizzonte stesso della nostra vita. La promessa del Regno parte sempre da qui, da ove noi siamo, altrimenti non avrebbe alcun senso. Ricostruire l’ospitalità della tavola, ricostruire la tavola dell’Altro, è una prospettiva per un futuro capace di fare posto all’umanizzazione della vita. “ Solo se c’è condivisione, ci possono essere banchetto e festa; solo se la tavola non è chiusa ma aperta a chi bussa, allo straniero, al pellegrino, al povero, è una tavola veramente umana”. Per chi ha avuto la fortuna di frequentare almeno una volta il Monastero di Bose sa che la cura e l’attenzione per il dettaglio dei monaci che ci vivono non è vano estetismo, ma risponde ad una posta in gioco etica radicale: aprire le porte allo straniero è aprire le porte a Gesù,....
. Chi legge l’Antico Testamento sa quanto spesso vi si raccontano pasti, cene, banchetti, feste: quante volte si mangia e si sta a tavola, o si parla di cose che riguardano la nutrizione degli esseri umani. Dio, nella Genesi, raccomanda all’uomo: «Tu mangerai, tu puoi mangiare». La stessa forza divina chiede dunque all’uomo di cibarsi: invita a mangiare; mette in guardia dall’astenersi dal cibo, o dal fare cattivo uso del cibo. La tavola, il cibo, il banchetto, il pane, il vino stanno sotto il segno di Dio. Nei Vangeli, Gesù ama la tavola come luogo di incontro con gli uomini e le donne: occasione di lode, benedizione e ringraziamento a Dio, promessa di vita e di pace per tutti, e quindi come immagine del Regno.,
,Nel libro che ha da poco pubblicato, Spezzare il pane. Gesù a tavola e la sapienza del vivere (Einaudi), padre Bianchi percorre due strade fondamentali. Da un lato, egli ama il cibo: lo venera, e ne sottolinea il rapporto con i sensi. Tutti e cinque i sensi sono convocati nel cibo: l’odorato, la vista, il tatto, il gusto, perfino l’udito (quando il ragù sobbalza, la patata frigge, il roastbeef rosola). Mai, come in queste pagine, scritte da un monaco, ci sentiamo immersi nella pienezza gioiosa del mondo vitale e sensuale. Questo mondo immenso viene sacralizzato: tutti i cibi e i banchetti richiamano alla mente passi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Essi ricordano le parabole dei Vangeli: il pane spezzato è quello di Cristo: il vino bevuto è quello di Cristo; il loro ricordo anticipa il salto, alla fine dei tempi, fuori dal tempo...
.Dio ama la propria creazione: «Ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero che dà frutti, che produce semi». Come padre Bianchi sottolinea, Egli ama tutta la propria creazione: gli innumerevoli cibi che offre come nutrimento agli uomini, senza scegliere tra loro, senza consigliare cibi puri e sconsigliare quelli impuri. Anche Gesù non sceglie: tutto, per lui, è buono e puro, purché noi siamo buoni e puri. In quest’amore indifferenziato per i cibi, dobbiamo riflettere l’amore e la fiducia vicendevole, che ci lega agli altri, e che conosciamo a tavola, mangiando, bevendo e parlando con i nostri fratelli....
.Nel libro di padre Bianchi, che è insieme un testo di teologia e un testo di cucina, vorrei sottolineare una bellissima pagina che egli ha estratto dai propri ricordi. Quando entrava a casa, negli anni dopo la Seconda guerra mondiale, egli guardava sempre, al centro della stanza centrale, una tavola che portava un pane e una bottiglia di vino: era, per lui, «una visione indelebile, magistrale, venerabile». Sulla tovaglia, sua madre aveva ricamato a punto croce la frase: «Il pane, il vino e l’olio siano lezione e consolazione».
Molti anni più tardi padre Bianchi scoprì con meraviglia nella Bibbia che nel tempio di Gerusalemme, luogo di incontro tra Dio e il suo popolo, proprio davanti al Santo dei Santi, dove la Shekinah , la presenza di Dio, aveva il suo trono, c’era una tavola coperta d’oro splendente. Una tavola per Dio? Certo, Dio non mangia, ma in questo modo gli ebrei ricordavano che ogni tavola può diventare un pasto al quale Dio è presente. Su questa tavola erano collocati i «pani del volto», dodici pani posti l’uno sull’altro, in due pile di sei, che venivano mangiati ogni sabato dai sacerdoti. Essi stavano dinanzi a Dio, come unica realtà visibile davanti alla tenda che chiudeva il Santo dei Santi, testimoniando la Sua Presenza. Il pane non era Dio, né stava al posto di Dio. I fedeli mangiavano il pane davanti a Dio per sentire la propria comunione con Lui. ..
PERDONATEMI un po l'unghetto il ''copia ed incolla'' ,,,ma interessante ...no ,
tanto ...in questi giorni sembra che siete un po' tutti assenti nessuno studia ...

leggete un po ...
voi in italia cercate il libro di ENZO BIANCHI ...
io veramente me ne andrei un mese in monastero ...chissa se e' solo per uomini o anche per donne ...
buona giornata ...