Non per abrogare, ma per adempiere. Mt 5:17 ss.
Inviato: lunedì 3 dicembre 2018, 12:40
Μὴ νομίσητε ὅτι ἦλθον καταλῦσαι τὸν νόμον ἢ τοὺς προφήτας· οὐκ ἦλθον καταλῦσαι ἀλλὰ πληρῶσαι·
Non pensate che sono venuto per abrogare la legge o i profeti; non sono venuto per abrogare ma per adempiere.
Saltano subito all’occhio le parole iniziali: “Non pensate che io sia venuto ad abrogare la legge (la Torah) e i Profeti”. Perché Yeshùa fa questa puntualizzazione? Evidentemente, i suoi insegnamenti e la sua condotta potevano indurre i giudei e soprattutto i suoi discepoli a dubitare della genuinità del comportamento di Yeshùa per quanto concerneva l’obbedienza ai comandamenti della legge e agli insegnamenti dei profeti. O forse Yeshùa sottintende che la sua venuta non implica la cessazione della validità della parola di Dio. Riprenderò questo punto più avanti.
Il verbo πληρόω (pleròo) significa propriamente “adempiere” nel senso latino del termine, ossia adimplēre, composto da ad (“fino a”) e implēre (“riempire”), dunque “riempire pienamente”, “colmare”, e anche “eseguire pienamente”, “compiere perfettamente”. Il secondo significato si adatta meglio al contesto, poiché se Yeshùa dicesse di essere venuto a “colmare” la Torah e i Profeti, significherebbe che la parola di Dio era mancante di qualcosa e necessitava di essere completata. Dunque, Yeshùa sta dicendo di essere venuto a “eseguire pienamente” la parola di Dio, a “compierla” e metterla in pratica in modo “pieno” e perfetto in ogni punto.
Un terzo significato, secondo alcuni, potrebbe anche riguardare l’adempimento delle profezie, ossia la loro realizzazione, e ciò si adatta apparentemente alle parole che seguono, in cui Yeshùa dichiara che “Finché il cielo e la terra non passeranno, neppure un iota o un solo apice della legge passerà, prima che tutto sia adempiuto” (v. 18), come dire che tutto ciò che è scritto deve realizzarsi, “venire ad essere”; il termine qui tradotto con “adempiere” è il verbo γίνομαι, ghìnomai, “venire ad essere”, “avvenire”, “fare”, “realizzare”, tuttavia il versetto non sembra parlare di adempimento di profezie, ma piuttosto di ogni cosa che la legge insegna e comanda e che deve “essere realizzata”. In parole povere, la Torah è valida fino alla fine dei tempi. E subito dopo, dice: “Chi dunque [οὖν, un, “conseguentemente” a ciò che è detto prima] avrà trasgredito uno di questi minimi comandamenti e avrà così insegnato agli uomini, sarà chiamato minimo nel regno dei cieli; ma colui che li metterà in pratica e li insegnerà, sarà chiamato grande nel regno dei cieli. Perciò [γάρ, gar, “perché”, causale e rafforzativa rispetto a ciò che precede] io vi dico: Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, voi non entrerete affatto nel regno dei cieli.” (vv. 19,20). Le congiunzioni οὖν e γάρ spiegano e rafforzano ciò che precede e quindi il versetto 18 fa riferimento alla necessità di obbedire alla legge, poiché essa è valida in eterno, e in un modo che sia “più giusto” di quanto già non facessero scribi e farisei. Il discorso di Yeshùa fa riferimento alla modalità di applicazione della legge, alla piena e verace realizzazione dei comandamenti, in modo da superare la giustizia dei farisei e degli scribi, che già osservavano la legge con zelo, ma evidentemente non nel giusto modo. Il punto quindi non è solo osservare, ma osservare in modo pieno, perfetto, conforme alla volontà di Dio.
Yeshùa criticava gli scribi e i farisei in modo specifico a motivo delle riforme (takanot) da loro attuate, che caricavano il comandamento di regole e comportamenti aggiuntivi e — a giudizio di Yeshùa — inutili e anzi dannosi, finendo per annullare il comandamento stesso (cfr. Mr 7:1-13). Ecco probabilmente perché Yeshùa puntualizza inizialmente che la sua intenzione non era certo quella di abrogare la legge e i Profeti (osservazione che evidentemente gli veniva mossa spesso), ma di osservare in modo puntuale e veritiero i comandamenti di Dio, senza caricarli di opere non richieste e inutilmente macchinose. Questo suo modo di pensare e di agire doveva risultare molto fastidioso per i farisei, i quali potevano sentirsi depredati della loro autorità, al punto che Yeshùa stesso precisa e insegna: “Gli scribi e i farisei siedono sulla cattedra di Mosè. Osservate dunque e fate tutte le cose che vi dicono di osservare”; ma poi precisa: “non fate come essi fanno, poiché dicono ma non fanno.” (Mt 23:2,3). Evidentemente, secondo Yeshùa gli scribi e i farisei, pur essendo i depositari della Torah e zelanti nell'obbedienza, non mettevano in pratica i comandamenti come insegnavano a fare. Le loro takanot aggiuntive erano divenute più importanti del comandamento puro alla base, dunque allontanavano dalla genuina osservanza.
A conferma di tutto ciò valgono le sue parole, pronunciate a difesa dei suoi discepoli che venivano accusati di violare il sabato (o piuttosto le takanot farisiache sul sabato): “Ora, se voi sapeste che cosa significa: "Io voglio misericordia e non sacrificio", non avreste condannato gl'innocenti” (Mt 12:7, cfr. Mt 9:13). Yeshùa risponde facendo riferimento a Is 1:11-17, in cui il profeta critica Israele per l’inadeguatezza spirituale dell’obbedienza, zelante per quanto riguardava l’applicazione pratica ma vuota quanto a giustizia.
Per cui: Yeshùa non viene per abrogare la Torah e i profeti, che restano validi fino alla fine dei tempi, ma per adempiere la legge in modo perfetto, come evidentemente mai era stato fatto prima. Il suo ruolo è quello di realizzare in modo pieno e verace ciò che Dio comanda, punto per punto. La Torah è valida in eterno, e in virtù di ciò ogni minimo comandamento deve essere messo in pratica ed è necessario insegnare a fare altrettanto. Perché se non si obbedisce in modo giusto, non è possibile entrare nel regno dei cieli.
Non pensate che sono venuto per abrogare la legge o i profeti; non sono venuto per abrogare ma per adempiere.
Saltano subito all’occhio le parole iniziali: “Non pensate che io sia venuto ad abrogare la legge (la Torah) e i Profeti”. Perché Yeshùa fa questa puntualizzazione? Evidentemente, i suoi insegnamenti e la sua condotta potevano indurre i giudei e soprattutto i suoi discepoli a dubitare della genuinità del comportamento di Yeshùa per quanto concerneva l’obbedienza ai comandamenti della legge e agli insegnamenti dei profeti. O forse Yeshùa sottintende che la sua venuta non implica la cessazione della validità della parola di Dio. Riprenderò questo punto più avanti.
Il verbo πληρόω (pleròo) significa propriamente “adempiere” nel senso latino del termine, ossia adimplēre, composto da ad (“fino a”) e implēre (“riempire”), dunque “riempire pienamente”, “colmare”, e anche “eseguire pienamente”, “compiere perfettamente”. Il secondo significato si adatta meglio al contesto, poiché se Yeshùa dicesse di essere venuto a “colmare” la Torah e i Profeti, significherebbe che la parola di Dio era mancante di qualcosa e necessitava di essere completata. Dunque, Yeshùa sta dicendo di essere venuto a “eseguire pienamente” la parola di Dio, a “compierla” e metterla in pratica in modo “pieno” e perfetto in ogni punto.
Un terzo significato, secondo alcuni, potrebbe anche riguardare l’adempimento delle profezie, ossia la loro realizzazione, e ciò si adatta apparentemente alle parole che seguono, in cui Yeshùa dichiara che “Finché il cielo e la terra non passeranno, neppure un iota o un solo apice della legge passerà, prima che tutto sia adempiuto” (v. 18), come dire che tutto ciò che è scritto deve realizzarsi, “venire ad essere”; il termine qui tradotto con “adempiere” è il verbo γίνομαι, ghìnomai, “venire ad essere”, “avvenire”, “fare”, “realizzare”, tuttavia il versetto non sembra parlare di adempimento di profezie, ma piuttosto di ogni cosa che la legge insegna e comanda e che deve “essere realizzata”. In parole povere, la Torah è valida fino alla fine dei tempi. E subito dopo, dice: “Chi dunque [οὖν, un, “conseguentemente” a ciò che è detto prima] avrà trasgredito uno di questi minimi comandamenti e avrà così insegnato agli uomini, sarà chiamato minimo nel regno dei cieli; ma colui che li metterà in pratica e li insegnerà, sarà chiamato grande nel regno dei cieli. Perciò [γάρ, gar, “perché”, causale e rafforzativa rispetto a ciò che precede] io vi dico: Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, voi non entrerete affatto nel regno dei cieli.” (vv. 19,20). Le congiunzioni οὖν e γάρ spiegano e rafforzano ciò che precede e quindi il versetto 18 fa riferimento alla necessità di obbedire alla legge, poiché essa è valida in eterno, e in un modo che sia “più giusto” di quanto già non facessero scribi e farisei. Il discorso di Yeshùa fa riferimento alla modalità di applicazione della legge, alla piena e verace realizzazione dei comandamenti, in modo da superare la giustizia dei farisei e degli scribi, che già osservavano la legge con zelo, ma evidentemente non nel giusto modo. Il punto quindi non è solo osservare, ma osservare in modo pieno, perfetto, conforme alla volontà di Dio.
Yeshùa criticava gli scribi e i farisei in modo specifico a motivo delle riforme (takanot) da loro attuate, che caricavano il comandamento di regole e comportamenti aggiuntivi e — a giudizio di Yeshùa — inutili e anzi dannosi, finendo per annullare il comandamento stesso (cfr. Mr 7:1-13). Ecco probabilmente perché Yeshùa puntualizza inizialmente che la sua intenzione non era certo quella di abrogare la legge e i Profeti (osservazione che evidentemente gli veniva mossa spesso), ma di osservare in modo puntuale e veritiero i comandamenti di Dio, senza caricarli di opere non richieste e inutilmente macchinose. Questo suo modo di pensare e di agire doveva risultare molto fastidioso per i farisei, i quali potevano sentirsi depredati della loro autorità, al punto che Yeshùa stesso precisa e insegna: “Gli scribi e i farisei siedono sulla cattedra di Mosè. Osservate dunque e fate tutte le cose che vi dicono di osservare”; ma poi precisa: “non fate come essi fanno, poiché dicono ma non fanno.” (Mt 23:2,3). Evidentemente, secondo Yeshùa gli scribi e i farisei, pur essendo i depositari della Torah e zelanti nell'obbedienza, non mettevano in pratica i comandamenti come insegnavano a fare. Le loro takanot aggiuntive erano divenute più importanti del comandamento puro alla base, dunque allontanavano dalla genuina osservanza.
A conferma di tutto ciò valgono le sue parole, pronunciate a difesa dei suoi discepoli che venivano accusati di violare il sabato (o piuttosto le takanot farisiache sul sabato): “Ora, se voi sapeste che cosa significa: "Io voglio misericordia e non sacrificio", non avreste condannato gl'innocenti” (Mt 12:7, cfr. Mt 9:13). Yeshùa risponde facendo riferimento a Is 1:11-17, in cui il profeta critica Israele per l’inadeguatezza spirituale dell’obbedienza, zelante per quanto riguardava l’applicazione pratica ma vuota quanto a giustizia.
Per cui: Yeshùa non viene per abrogare la Torah e i profeti, che restano validi fino alla fine dei tempi, ma per adempiere la legge in modo perfetto, come evidentemente mai era stato fatto prima. Il suo ruolo è quello di realizzare in modo pieno e verace ciò che Dio comanda, punto per punto. La Torah è valida in eterno, e in virtù di ciò ogni minimo comandamento deve essere messo in pratica ed è necessario insegnare a fare altrettanto. Perché se non si obbedisce in modo giusto, non è possibile entrare nel regno dei cieli.