Traduzione di 1Cor 7:10,11

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bgaluppi
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Traduzione di 1Cor 7:10,11

Messaggio da bgaluppi »

Molto è stato già scritto qui:

http://www.biblistica.eu/phpbb/viewtopi ... =80#p53487" onclick="window.open(this.href);return false;

Vorrei cominciare prendendo in considerazione il termine ἄγαμος (àgamos), usato nelle Scritture Greche 4 volte solo da Paolo in questa Prima Lettera ai Corinti. Lo Strong dà la seguente definizione: “non sposato, di una persona che non è in uno stato di matrimonio, sia che sia stata precedentemente sposata o meno”. E il Rocci riporta: “celibe, senza connubio, non unito in matrimonio”. Il termine definisce dunque una persona libera da vincoli matrimoniali, mai sposata oppure divorziata e dunque "single".

Analizziamo adesso i casi in cui Paolo utilizza questo termine. Se non diversamente specificato, la traduzione usata è quella della Nuova Riveduta.

1Cor 7:8,9: “Ai celibi [τοῖς ἀγάμοις, tòis agamòis] e alle vedove, però, dico che è bene per loro che se ne stiano come sto anch'io. Ma se non riescono a contenersi, si sposino [γαμησάτωσαν, gamesàtosan]; perché è meglio sposarsi che ardere.”

In questo versetto, risulta ovvio che Paolo usa il termine per indicare i celibi, ossia gli uomini mai sposati e quindi liberi da vincolo matrimoniale, poiché al v. 9 li esorta a sposarsi (γαμησάτωσαν, terza persona plurale dell'imperativo aoristo attivo di γαμέω, gamèo, "mi sposo") nel caso non riescano a contenersi.

1Cor 7:10,11: “Ai coniugi poi ordino, non io ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito (e se si fosse separata, rimanga senza sposarsi [μενέτω ἄγαμος, menèto àgamos] o si riconcili con il marito); e che il marito non mandi via la moglie.”.

Questi due versetti costituiscono l'oggetto di questa analisi e dunque saranno commentati successivamente.

1Cor 7:32,33: “Vorrei che foste senza preoccupazioni. Chi non è sposato [ὁ ἄγαμος, ho àgamos] si dà pensiero delle cose del Signore, di come potrebbe piacere al Signore; ma colui che è sposato [ὁ δὲ γαμήσας, ho de gamèsas] si dà pensiero delle cose del mondo, come potrebbe piacere alla moglie”.

Qui abbiamo una contrapposizione tra “chi non è sposato” (ὁ ἄγαμος) e “colui che è sposato” (ὁ δὲ γαμήσας). Il senso di ἄγαμος si capisce dal verbo γαμήσας, prima persona singolare del participio aoristo attivo di γαμέω, che significa “essentesi sposato”. Per contrapposizione a “colui che è sposato del v. 33, ὁ ἄγαμος significa esattamente “il celibe” mai sposato, o “colui che non è sposato” essendo divorziato. Paolo sta dicendo che il suo desiderio sarebbe che il credente avesse meno preoccupazioni possibili, in virtù del fatto che “il tempo è ormai abbreviato” (v. 29), e che la persona libera da vincoli matrimoniali può permettersi di dedicare se stesso interamente a Dio, mentre chi è sposato deve preoccuparsi di piacere al coniuge. Anche al v. 32, dunque, il significato di ἄγαμος è quello che riportano i dizionari: “libero da vincolo matrimoniale”.

1Cor 7:34: “La donna senza marito [ἡ γυνὴ ἡ ἄγαμος, he ghynè he àgamos] o vergine si dà pensiero delle cose del Signore, per essere consacrata a lui nel corpo e nello spirito; mentre la sposata [ἡ δὲ γαμήσασα, he de gamèsasa] si dà pensiero delle cose del mondo, come potrebbe piacere al marito.”.

Per questo versetto, rivolto alla donna, valgono le considerazioni fatte per i vv. 32,33.

Da questa breve analisi si evince che Paolo usa tre volte il termine ἄγαμος col suo significato proprio di “celibe”, o “libero da vincolo matrimoniale”. Risulta probabile che anche al v. 11 Paolo utilizzi il termine con lo stesso significato. Dunque, starebbe parlando di una persona divorziata a cui ordina di restare libera, di non sposarsi nuovamente. Ciò risulta ovvio, poiché non potrebbe consigliare ad una persona sposata ma separata di restare libera, in quanto libera non lo è.

La traduzione dei vv. 10,11 che propongo (in modo un po' libero per chiarezza) è la seguente:

“Ai coniugi poi ordino, non io ma il Signore, che la moglie non divorzi dal marito (e se divorziasse, resti da sola o si riconcili con il marito); e che il marito non ripudi la moglie.”.

Se vi va, mi piacerebbe discutere con voi la fattibilità di questa traduzione alla luce della Torah, dell'insegnamento di Yeshùa e ovviamente delle Scritture Greche, per poi valutare se Paolo non parli invece della possibilità della separazione al posto del divorzio.
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Gianni
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Re: Traduzione di 1Cor 7:10,11

Messaggio da Gianni »

Caro Antonio, rimango convinto che la tua interpretazione non possa essere accolta. Oltre alle ragioni bibliche che avevo già esposto, c’è una ragione di logica interna al passo di 1Cor 7:11 che lo impedisce.
Tu traduci: “Se divorziasse, resti da sola o si riconcili con il marito”. Ora, il testo greco afferma: μενέτω ἄγαμος, “rimanga senza matrimonio” (traduzione letterale di ἄγαμος). Se si trattasse di divorzio, Paolo non potrebbe pretendere che lei resti sola o, in alternativa, risposi il vecchio marito.
Se fosse divorziata per giusta causa (biblica), sarebbe libera di sposare chi vuole.
Per tradurre come fai tu, sei costretto ad ipotizzare che lei divorzi per motivi non biblici e dovresti pure ipotizzare che tale divorzio sia concesso (e non si capirebbe da chi e per quali strane ragioni). Troppe ipotesi, oltretutto traballanti, di cui nel testo non troviamo minima traccia.
Paolo sta parlando a dei coniugi credenti (v. 10) e trasmette loro l’ordine del Signore di non separarsi. L’apostolo ammette tuttavia la separazione da parte della donna. Ad una sola condizione: che rimanga “senza matrimonio” (traduzione letterale di ἄγαμος). In alternativa “si riconcili [καταλλαγήτω] col marito”. Solo la separazione può spiegare queste limitazioni.

Un divorzio non motivato non sarebbe concesso.

Un divorzio biblicamente motivato non avrebbe restrizioni di sorta.

Una separazione sì.
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bgaluppi
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Re: Traduzione di 1Cor 7:10,11

Messaggio da bgaluppi »

Caro Gianni, grazie della tua risposta. Dici bene: un divorzio non motivato non sarebbe concesso, un divorzio motivato non avrebbe restrizioni. Ma che Paolo parli di separazione, vista la sua natura estremamente osservante della legge e visto che né la legge né Yeshùa contemplano (regolamentano) la separazione, né era una pratica comunemente accettata presso gli ebrei, mi sembra molto strano. Sto approfondendo molto la questione, anche leggendo le interpretazioni del Talmud; bisogna anche tenere conto del fatto che Paolo parlava ai Corinti, tra i quali avvenivano varie fornicazioni. Io credo che i ragionamenti di Paolo, come al solito, debbano essere scandagliati più a fondo. Ci sono diversi suoi discorsi che, ad una prima lettura, non stanno in piedi; ad esempio quando dice “è bene per l'uomo non toccare donna” (v. 1), o “Ai celibi e alle vedove, però, dico che è bene per loro che se ne stiano come sto anch'io” (v. 8); sai bene che il matrimonio per gli ebrei è una mitzva importantissima, e che la prima mitzva della Torah è “moltiplicatevi”, dunque Paolo, dicendo ai celibi di restare tali o all'uomo di non toccare donna, fa qualcosa di molto strano e non conforme alla Torah e al costume ebraico. Dammi un attimo di tempo e cercherò di presentare argomentazioni valide che possano spiegare le molte apparenti incongruenze. :-)
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Gianni
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Re: Traduzione di 1Cor 7:10,11

Messaggio da Gianni »

Caro Antonio, i consigli paolini sul celibato e il nubilato erano motivati dalla convinzione (poi rivelatasi errata) che il tempo rimasto fosse molto ridotto. Yeshùa stesso previde guai alle donne incinte e a quelle che allattano in quei giorni, ma con ciò non era certo contro la maternità. Quanto alla Toràh, vi cercheresti inviano una regolamentazione per i coniugi che avessero voluto vivere al mare o in montagna. Intendo dire che ci sono circostanze di fatto che non necessitano di alcuna regolamentazione.
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bgaluppi
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Re: Traduzione di 1Cor 7:10,11

Messaggio da bgaluppi »

Gianni, però àgamos significa "celibe", "non sposato". Se applichi questo significato a quel versetto, cambia tutto e nasce un problema. Questo è il senso con cui Paolo lo usa negli altri tre casi, in cui coloro a cui è riferito sono ovviamente "senza matrimonio", ossia "liberi da vincolo". Voler utilizzare il termine nel caso del v. 11 dandogli una sfumatura diversa dal senso con cui è usato in tutti gli altri casi, mi sembra una forzatura. Allora vorrei cercare di capire se — nel caso in cui Paolo parlasse di divorzio — esiste una possibilità di armonizzare il tutto. C'è forse una ragione biblica, suffragata anche dalla tradizione, per cui Paolo potrebbe ordinare in nome di Dio alla credente divorziata per giusta causa di non sposarsi di nuovo o di ritornare dal marito, ma ci arrivo con ordine nel corso dell'analisi graduale che vorrei fare.

Inizio con una esegesi versetto per versetto, seguendo però la NR, salvo i casi in cui sia necessario un approfondimento della traduzione. Strada facendo, aggiungo anche i commenti e le interpretazioni dei rabbini per approfondire. Ti prego di fare le dovute osservazioni e/o correzioni, perché vorrei trasformare il tutto in uno studio.

Prima di affrontare nel dettaglio l’analisi dei passi biblici che trattano il matrimonio e in particolar modo il divorzio, credo sia necessario fare una premessa e stabilire dei punti fermi. Sia Yeshùa che Paolo non potevano certamente discostarsi dalle mitzvot della Torah che sanciscono e regolamentano il matrimonio e il divorzio. Yeshùa rispettava la Torah e le tradizioni (quantomeno certe tradizioni, a seconda delle scuole) e parlava ad ebrei all’interno della comunità ebraica; inoltre afferma che la Torah è valida per sempre ed è immutabile (Mt 5:18), dunque non avrebbe potuto modificarla, né invalidare una mitzva come quella sul libro di ripudio. Paolo, pur parlando anche e soprattutto ai gentili, era “fariseo figlio di farisei” (At 23:6) e basava il suo insegnamento sulla Torah e su quello trasmessogli da Yeshùa, che era conforme alla Torah. Il fatto che parlasse ai gentili, però, è un dato da non sottovalutare, nel momento in cui si leggono i suoi scritti. Quindi, è impensabile che l’insegnamento del giudeo Yeshùa — che predicò agli ebrei della Galilea e di Gerusalemme —, e conseguentemente quello di Paolo, pur rivolto anche ai gentili, potessero entrare anche minimamente in contrasto con la Torah (o aggiungere e togliere ad essa). E infatti, come vedremo, il pensiero di Yeshùa sul matrimonio e sul divorzio non si distacca affatto dalla Torah, né dalla tradizione dei maestri di Israele. Tuttavia, Yeshùa apre al diritto della donna di ripudiare il marito (Mr 10:12), diritto che le fu negato fino all'undicesimo secolo ma che può essere già individuato nel libro di Esodo, peraltro. Paolo, dal canto suo, deve essere esaminato con particolare attenzione, in quanto i suoi destinatari erano perlopiù provenienti da culture straniere influenzate dal paganesimo, e poiché nel periodo della prima chiesa esisteva una forte convinzione che il tempo della fine fosse giunto e che il messia sarebbe tornato a breve (cfr. 1Cor 7:26,29). In questo studio, partendo da 1Cor 7, mi propongo di esaminare alcuni versetti della Torah relativi al matrimonio e al divorzio, oltreché alcune interpretazioni e insegnamenti del Talmud, per poi valutare — alla luce di essi — gli insegnamenti di Yeshùa e Paolo, sempre relativi al matrimonio e al divorzio, onde comprendere al meglio certe sfumature di 1Cor 7 che, nel mio pensiero, molte esegesi moderne trascurano. Oppure, scoprirò che mi sono sbagliato, e dunque sarà stata un'ottima occasione per imparare qualcosa. Dunque, inizio.

“1 Or quanto alle cose di cui mi avete scritto, è bene per l'uomo non toccare donna; 2 ma, per evitare le fornicazioni, ogni uomo abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. 3 Il marito renda alla moglie ciò che le è dovuto; lo stesso faccia la moglie verso il marito. 4 La moglie non ha potere sul proprio corpo, ma il marito; e nello stesso modo il marito non ha potere sul proprio corpo, ma la moglie. 5 Non privatevi l'uno dell'altro, se non di comune accordo, per un tempo, per dedicarvi alla preghiera; e poi ritornate insieme, perché Satana non vi tenti a motivo della vostra incontinenza.”

Al v. 1 Paolo dice che “è bene per l'uomo non toccare donna”. Questa affermazione, presa da sola, si pone in contrasto con la Torah, che comanda all'uomo di moltiplicarsi unendosi ad una moglie in matrimonio: “Siate fecondi e moltiplicatevi” (Gn 1:28). Ed è ancor più in contrasto con la tradizione dei Saggi, che Paolo doveva conoscere molto bene in qualità di “fariseo, figlio di farisei” (At 23:6). Nel Sefer Hachinnukh, un compendio di precetti del tredicesimo secolo, è scritto: “Il fine di questa mitzvah [Gn 1:28] è che il mondo, che Dio crea disabitato, potrà essere in verità popolato. Come è scritto: "egli non ha creato il mondo perché sia vuoto; egli l’ha modellato perché sia abitabile" (Is 45:18). E questo è il Suo più importante precetto, attraverso il quale tutti gli altri comandamenti possono essere onorati”. Sul Talmud leggiamo: “Se un uomo è sposato nella sua giovinezza, fa che si sposi anche nella sua vecchiaia. Se un uomo ha procreato nella sua giovinezza, fa che procrei anche nella sua vecchiaia” (Yevamot 61b; Shulchan Arukh, Even HaEzer 1,8). Maimonide insegna: “Anche se un uomo può aver adempiuto fino in fondo alla mitzvah della procreazione, questa è ciò nondimeno una mitzvah dei Saggi che egli non può smettere di procreare per tutto il tempo che rimane virile, poichè colui il quale aggiunge un solo spirito a Israele è come se abbia creato un intero mondo. Ed è un comando dei Saggi che nessun uomo possa rimanere senza una moglie” (Yad Ishut 15,16).

Questo primo importantissimo comandamento della Torah, dunque, mette in evidenza come la procreazione sia lo scopo principale della vita matrimoniale secondo gli ebrei; tuttavia, dal punto di vista della vita, non costituisce elemento primario ed esclusivo. Infatti, la Torah afferma che “Non è bene che l'uomo sia solo” (Gn 2:18), e poi stabilisce che “l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà ["si attaccherà", prima emotivamente] a sua moglie, e saranno una stessa carne [unione fisica e spirituale]” (Gn 2:24). Il concetto della necessità di un compagno per la vita e dell'importanza dell'affetto coniugale, espresso in Gn 2:18, viene sottolineato durante le benedizioni matrimoniali sotto il baldacchino dove due delle sette benedizioni sono una celebrazione gioiosa dello stare insieme. Nell'ebraismo, il matrimonio viene ritenuto una benedizione, un'unione spirituale di due anime, uomo e donna, che si compenetrano e si completano come in un corpo solo (una sola "anima"), in base a quanto espresso in Gn 2:24. Poiché il nostro corpo è la Sua creazione, Dio partecipa nell’unione coniugale come in un triangolo fatto da due esseri umani e Lui.

Detto questo, come possiamo spiegare l'affermazione di Paolo secondo cui “è bene per l'uomo non toccare donna”? Di fatto, non possiamo con assoluta certezza, poiché questa frase è in risposta ad una lettera a lui precedentemente inviata dalla comunità di Corinto (“quanto alle cose di cui mi avete scritto”, v. 1), in cui evidentemente avvenivano fornicazioni anche gravi e sussistevano divisioni (5:1; 1:10). Non conoscendo il contenuto di quella lettera, non possiamo spiegare con esattezza e sicurezza la frase di Paolo. Certo, i tempi erano ristretti e tutti credevano che il messia sarebbe tornato a breve, ma ciò non giustifica un insegnamento in netta contrapposizione con una mitzva della Torah, soprattutto dalla bocca di un osservante come Paolo. Possiamo però ipotizzare quali fossero le situazioni che hanno indotto Paolo a rispondere ai quesiti a noi ignoti dei Corinti che “è bene per l'uomo non toccare donna”; in base al v. 2, in cui Paolo ordina a uomini e donne di avere ognuno la "propria" moglie e il "proprio" marito, possiamo supporre che il v. 1 voglia significare "non toccare altra donna che non sia la propria". E questo è un insegnamento conforme alla Torah. Evidentemente, all'interno della comunità di Corinto erano frequenti i casi di fornicazione, e Paolo li richiama all'ordine. Ad ogni modo, per la scarsità di informazioni, non è possibile utilizzare questo versetto per affermare che Paolo incitasse i credenti ad astenersi dai rapporti sessuali e dal matrimonio.

Per quanto concerne i vv. 2-5, Paolo non si discosta dal Tanach: “per evitare le fornicazioni, ogni uomo abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito” (Gn 2:24; Es 20:14; Pr 5:19); “Il marito renda alla moglie ciò che le è dovuto; lo stesso faccia la moglie verso il marito” (i diritti e doveri reciproci degli sposati sono sanciti nella Torah, nella torah orale [Nashim] ed elencati da Maimonide tra i 613 precetti, inoltre cfr. Mal 2:13,14; Pr 5:18,19); “La moglie non ha potere sul proprio corpo, ma il marito; e nello stesso modo il marito non ha potere sul proprio corpo, ma la moglie. Non privatevi l'uno dell'altro, se non di comune accordo, per un tempo, per dedicarvi alla preghiera; e poi ritornate insieme, perché Satana non vi tenti a motivo della vostra incontinenza.” (Gn 2:24; Es 20:14,17; Lv 20:18). Sui vv. 4 e 5, vorrei aggiungere che l'ebraismo affronta lo scoglio del “raffreddamento” passionale che può incorrere in seguito al matrimonio con il concetto della «purità famigliare» (basata su Lv 20:18), che chiama al totale e reciproco ritiro fisico e sessuale durante i dodici giorni che seguono l'inizio delle mestruazioni. Ciò impone alla coppia un ritmo di passività e di attività, di lontananza e di accessibilità, di passione e di disciplina, che servono a mantenere vivo il matrimonio.

Poi, al v. 6, Paolo scrive: “Ma questo [che segue] dico per concessione, non per comando”. Questa frase presenta ciò che segue non come un comando ispirato (e dunque proveniente da Dio) ma come "concessione". Esaminerò il tutto nel prossimo commento.
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bgaluppi
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Re: Traduzione di 1Cor 7:10,11

Messaggio da bgaluppi »

Continuo dal v. 6: “Questo dico per concessione non per comando”. A cosa si riferisce? A ciò che precede o ciò che segue? Perché τοῦτο (tùto, "questo") può riferirsi ad entrambi. Sarebbe assurdo che Paolo dicesse delle cose che sono comandate nella Torah (vv. 2-5) "per concessione". Come abbiamo visto, i vv. 2-5 presentano ordini, perché da una parte il contenuto dei suoi insegnamenti è conforme alla Torah, e dall'altra Paolo usa l'imperativo, che può avere anche valore esortativo, ma solo se si considera quel τοῦτο come riferito a ciò che precede ad indicare una concessione. Resta però il fatto che ciò che Paolo dice è conforme alla Torah, dunque sarebbe assurdo che si trattasse di una "concessione", ossia di un "permesso". Non è necessario che ci sia un permesso per obbedire alle mitzvot della Torah, perché l'obbedienza è dovuta. Dunque, τοῦτο deve essere riferito a ciò che segue:

“Io vorrei che tutti gli uomini fossero come sono io [questo è il motivo della concessione]; ma ciascuno ha il suo proprio dono da Dio; l'uno in un modo, l'altro in un altro [Paolo ammette che non tutti siamo uguali]. Ai celibi e alle vedove, però, dico che è bene per loro che se ne stiano come sto anch'io. Ma se non riescono a contenersi, si sposino; perché è meglio sposarsi che ardere.”. La NR traduce la congiunzione δὲ con valore avversativo, per contrapporre ciò che segue con ciò che precede; ma essa compare in ogni frase a partire dal v. 1, dunque ha più valore consecutivo, e meglio sarebbe non tradurla affatto.

Credo dunque che l'insegnamento che Paolo dà "per concessione", e lo dà ai celibi e alle vedove (τοῖς ἀγάμοις, tòis agàmois, "i non sposati", ossia liberi da vincolo coniugale), sia questo: “è bene per loro che se ne stiano come sto anch'io. Ma se non riescono a contenersi, si sposino; perché è meglio sposarsi che ardere (di desiderio)”. Ciò è sostenuto non solo dal fatto che consigliare ai celibi di non sposarsi non è conforme alla Torah, e dunque può essere solo una concessione e non un ordine; ma anche dal fatto che subito dopo dice: “Ai coniugi poi ordino, non io ma il Signore”, e questa non è più una concessione ma un ordine. Dunque, la concessione di non sposarsi Paolo la fa ai celibi e alle vedove (se si sposano non violano la Torah, ma se non si sposano è meglio per loro), mentre agli sposati dà un ordine, che analizzeremo.

Continua...
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bgaluppi
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Re: Traduzione di 1Cor 7:10,11

Messaggio da bgaluppi »

Per riassumere quanto detto fin qui, secondo il mio pensiero.

Paolo comincia a rispondere alle domande che i Corinti gli avevano scritto, che non conosciamo. Dalle risposte di Paolo si capisce che esse riguardavano il matrimonio. Paolo inizia dicendo che è bene che un uomo non tocchi una donna (che non sia la sua, forse); infatti, subito dopo ordina (tramite imperativo) che ognuno abbia la sua moglie e il suo marito, onde evitare qualsiasi pericolo di fornicazione, evidentemente frequente in quella comunità. Sarebbe strano dire che "un uomo" (generico senza articolo) non debba toccare una donna come regola assoluta (ciò è contrario all Torah, e non tutti sono Paolo) per poi invitare ognuno ad avere la sua moglie. Oppure, quella frase non può essere spiegata se non in relazione a ciò che i Corinti scrissero a Paolo, di cui non conosciamo i dettagli e su cui fare ipotesi sarebbe poco produttivo; dunque, “è bene per l'uomo non toccare donna, quanto alle cose di cui mi avete scritto”, e che noi non sappiamo. In seguito, dà un consiglio ai celibi e alle vedove, che restino tali; ma solo se sono in grado di farlo, altrimenti è meglio che si sposino. Il motivo di un tale consiglio, non conforme alla Torah, lo capiremo più avanti nel capitolo. Dopodiché, impartisce un ordine divino, che riguarda invece gli sposati.

Ecco la traduzione letterale dei primi 9 versetti:

1 Riguardo alle cose di cui [mi] avete scritto, [è] bene per un uomo non toccare una donna. 2 A motivo della fornicazione, ogni uomo abbia la sua moglie e ogni donna abbia il suo marito. 3 Il marito dia indietro alla moglie il dovere coniugale; allo stesso modo [faccia] la moglie al marito. 4 La moglie non ha autorità sul suo proprio corpo, ma il marito; allo stesso modo, il marito non ha autorità sul suo proprio corpo, ma la moglie. 5 Non privatevi l'uno dell'altro se non per comune accordo per un periodo di tempo, affinché vi dedichiate alla preghiera e di nuovo torniate insieme, perché satana non vi metta alla prova a motivo della vostra incontinenza. 6 Questo dico come concessione, non come comando; 7 io vorrei che tutti gli uomini fossero come me ma ognuno ha il suo dono da Dio chi in un modo chi in un altro; 8 io dico ai celibi e alle vedove che [è] bene per loro che restino come [sono] anche io, 9 ma se non hanno autocontrollo, che si sposino, perché è meglio sposarsi che bruciare di passione.
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Re: Traduzione di 1Cor 7:10,11

Messaggio da bgaluppi »

Entrando nell'analisi dei vv. 10-11, che riguardano questo studio, riporto i commenti di alcuni studiosi.

Il Dizionario Teologico del Nuovo Testamento (Kittel-Friedrich), riguardo a matrimonio e divorzio (voce gaméō, sposare, gámos, matrimonio) riporta quanto segue:

“Anche se Gesù stesso non si sposa, e il matrimonio appartiene all'eone attuale, Gesù non mette in guardia contro il matrimonio o ingiunge il celibato, ma appoggia l'istituzione trovata in Genesi 2:24. Paolo sviluppa gli stessi motivi. In 1Cor 6:16-17 mostra come l'unione di Gen 2:24 esclude la fornicazione. In 1Cor 7 cita Gesù nel rifiuto delle nuove nozze dopo il divorzio (7:10-11). Una volta contratto, il matrimonio deve essere eseguito completamente con solo brevi periodi di ritiro (7:3ss). Paolo, tuttavia, rafforza la riserva di Gesù. Il matrimonio può ostacolare la vera dedizione a Dio (7:5, 32 ss.) E non è in consonanza con l'ora (7:26, 28-29). Se la sperimentazione ascetica non è approvata e le vedove sono libere di risposarsi (7:39-40), potrebbe desiderare che tutti avessero il dono del celibato come lui stesso aveva fatto per il bene della sua unica missione (7:1-2, 7-8; cfr 1Cor 9:5,12,15 ss.).”

Raimond E. Brown scrive:

“Sebbene l'astensione dal sesso sia lodevole in sé, Paolo non la incoraggia nel matrimonio perché potrebbe creare tentazioni ed esercitare l'ingiustizia. Incoraggia il matrimonio per coloro che non riescono ad esercitare il controllo, anche se con "vorrei che tutti fossero come me stesso" Paolo vuol significare apparentemente senza una moglie (vedovo o mai sposato?). E, naturalmente, praticare l'astinenza (7:2-9). A quelli già sposati (forse pensando ad una coppia specifica) Paolo ripete la sentenza del Signore (pagina 141 sopra) contro il divorzio e le seconde nozze (7:10-11), ma poi aggiunge una sua decisione che consente la separazione quando uno dei partner non è un cristiano e non vivrà in pace con il credente (7:12-16).”

Il Nuovo Grande Commentario biblico di Brown-Fitzmyer-Murphy segue la linea proposta sopra.

Aggiungo mie considerazioni, ulteriori a quelle già fatte all'inizio di questa discussione. Nel mio pensiero, i vv. 10-11 fanno riferimento al divorzio, proibito da Yeshùa tranne che in caso di fornicazione; il principio di Yeshùa è che l'unione coniugale è inscindibile, anche nel caso in cui gli uomini decidano di divorziare. Dunque, risulta ovvio che chi divorzia non possa risposarsi. Paolo riprende questo insegnamento e chiarifica questo ultimo punto per quanto concerne la donna: “la moglie non si separi dal marito (e se si fosse separata, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito)”. È vero che Paolo non dice “la moglie non mandi via il marito”, come in Mr 10:12, ma è vero che, all'interno dello stesso insegnamento, dice “il marito non mandi via la moglie” (non “il marito non si separi dalla moglie”). L'atto del “mandare via” fa specifico riferimento al ripudio, non ad una ipotetica separazione; si scriveva il libretto di ripudio, lo si metteva in mano alla moglie e la si faceva andare via di casa. Se si trattasse di separazione, Paolo avrebbe dovuto dire: “la moglie non si separi dal marito... e il marito non si separi dalla moglie”. Invece, ben traduce la CEI, che riporta: “la moglie non si separi dal marito - e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito - e il marito non ripudi la moglie.”.

Perché, nei confronti della donna, Paolo utilizza il verbo “separare” (chorìzo, al passivo), mentre nel caso dell'uomo parla di “mandare via”, ossia “ripudiare”? Perché fino all'undicesimo secolo, grazie ad un decreto di Rabbi Gershon of Mayence, non era permesso ad una donna di ripudiare il marito. “Durante il regno degli Erodiani, sotto l'influenza della pratica romana, sono registrati casi in cui le donne inviavano fatture di divorzio ai loro mariti (Giuseppe, "Ant." Xv. 11, xviii. 7). Questi sono stati riconosciuti come violazioni della legge e non sono mai diventati precedenti.” (Jewish Encyclopedia). Paolo afferma con chiarezza: “La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all'uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia.” (1Tim 2:11-15). E afferma anche: “Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea.” (1Cor 14:34-35).

Dalle parole di Paolo si comprende come la sua idea nei confronti dell'autorità della donna sul marito fosse conforme alla Torah, ed è difficile pensare che potesse concepire che una donna ripudiasse il marito (atto non contemplato dalla Torah), se lo avesse voluto; allora parla di separazione, non di “mandare via”. La donna poteva chiedere il divorzio, pretendendo un atto di ripudio dal marito sotto certe circostanze (cfr. Jeswish Encyclopedia sotto la voce "Divorce"); per cui, la separazione di cui parla Paolo — ossia l'abbandono del matrimonio da parte della moglie — poteva far riferimento a questo caso, che forse fu discusso nella corrispondenza inviata dai Corinti. Dunque, “la moglie non si separi (non vada via) e il marito non la mandi via”, ossia “i coniugi non divorzino”, poiché sarebbe illogico che nella stessa frase Paolo parlasse di separazione nei confronti della moglie e di ripudio nei confronti del marito. O è separazione per entrambi, o è divorzio per entrambi. Se la donna se ne andava, ossia divorziava, doveva restare senza sposarsi o riconciliarsi col marito, perché Yeshùa insegna che il matrimonio è indissolubile e perché — Secondo Dt 24:2-4 — la donna ripudiata (e dunque divorziata) che avesse sposato un altro uomo non poteva più ricongiungersi col primo marito. Per questo, Paolo, ordina che la moglie divorziata dal marito non si risposi oppure si ricongiunga col marito (poteva farlo se non si sposava di nuovo).
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