Il difficile brano di 1Cor 7:36-38

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Gianni
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Re: Il difficile brano di 1Cor 7:36-38

Messaggio da Gianni »

Molto bene, Antonio. TILC risolve tutto (aoristi) traducendo: "Se però ti sposi non fai nulla di male. E se una ragazza si sposa non fa nulla di male". Il che è una specie di moratoria che legittima il passato e vale per il presente e il futuro.
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bgaluppi
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Re: Il difficile brano di 1Cor 7:36-38

Messaggio da bgaluppi »

In italiano funziona, alla fine sono sfumature. :-)
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bgaluppi
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Re: Il difficile brano di 1Cor 7:36-38

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Gianni, stai scrivendo un'esegesi o uno studio, oppure un vero e proprio libro? Scusa la curiosità...
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Gianni
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Re: Il difficile brano di 1Cor 7:36-38

Messaggio da Gianni »

Ciao, Antonio. Intendo scrivere tre libri o, meglio, un libro in tre volumi. Si tratta dell'esegesi alle due lettere di Paolo ai corinti. Sto per terminare il primo sulla 1Cor. A Dio piacendo, seguirà il secondo sulla 2Cor e il terzo volume tratterà la teologia paolina.
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bgaluppi
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Re: Il difficile brano di 1Cor 7:36-38

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Wow...
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bgaluppi
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Re: Il difficile brano di 1Cor 7:36-38

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:-)
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Re: Il difficile brano di 1Cor 7:36-38

Messaggio da Gianni »

Sto terminando il cap. 13. :-) Al 16, a Dio piacendo, ci arriverò presto.
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Re: Il difficile brano di 1Cor 7:36-38

Messaggio da Gianni »

Comunque, la trattazione la trovi alla fine della lezione 47. L’ultimo messaggio della Sacra Scrittura, qui:
http://www.biblistica.it/wordpress/wp-c ... ittura.pdf" onclick="window.open(this.href);return false;
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bgaluppi
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Re: Il difficile brano di 1Cor 7:36-38

Messaggio da bgaluppi »

Ciao Gianni, vorrei esaminare per un momento i vv. 10,11. La NR traduce: “Ai coniugi poi ordino, non io ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito (e se si fosse separata, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito); e che il marito non mandi via la moglie.”. I termini che mi interessano in particolare sono il verbo χωρίζω (korìzo) e il verbo ἀφίημι (afìemi). La NR li traduce correttamente, ma ho dei dubbi che Paolo stia parlando di separazione e non di divorzio, e spiegherò perché. Come premessa, faccio notare che Paolo non scende nei particolari sulle motivazioni della separazione (o divorzio).

Korìzo significa propriamente "divido", "separo" ("mi separo" al medio-passivo) ma assume anche il senso di lasciare un luogo creando un vuoto. Lo HELPS e il Thayer lo associano anche al divorzio, sulla linea proposta dal Moulton-Milligan.

Afìemi significa propriamente "mando via", "rilascio", e assume anche il senso traslato di "perdonare". Sembra molto simile a שָׁלַח (shalach), usato in Dt 24:1 proprio in riferimento al divorzio. Il verbo afìemi è usato anche ai vv. 12 e 13.

Per indicare il divorzio, è più comunemente usato il verbo ἀπολύω (apolùo), che però non significa "divorziare" ma ha lo stesso identico significato di afìemi: "mando via", "rilascio". L'atto di mandare via la moglie dalla propria casa costituiva proprio un atto di divorzio, che veniva sancito con il documento di ripudio (i due che vivevano insieme erano considerati sposati, ma se non vivevano più insieme come erano considerati?). È interessante notare come Paolo non usi mai il verbo apolùo, ma sia usato solo dagli evangelisti (lo troviamo anche in Atti) e solo una volta dall'agiografo di Ebrei (13:23) e comunque non in riferimento al divorzio.

Tornando alla traduzione della NR, siamo proprio sicuri che Paolo stia parlando di separazione e non di divorzio? Che senso avrebbe avuto un'unione coniugale se i due non vivevano assieme? Su questo ci ritorno alla fine. Se leggiamo con attenzione, al v. 11, in riferimento ad una donna che si separasse dal marito, Paolo comanda che “rimanga non-sposata” (μενέτω ἄγαμος, menèto àgamos). Come potrebbe mai, una donna solo separata e non divorziata, restare "non-sposata"? Solo una divorziata può restare "non-sposata". Il termine ἄγαμος indica una condizione di libertà dal vincolo coniugale. Se è solo separata, significa che è ancora vincolata, ed è impossibile che resti "non-sposata" (ossia libera) o possa sposarsi di nuovo e avere due mariti! Mi sembra che Paolo dica: “la moglie non divorzi dal marito (e se divorziasse, non si risposi o si riconcili con il marito) [dunque ritorni ad essere sua moglie]”.

Io ho l'impressione che: o Paolo non sta parlando di separazione, ma di divorzio, oppure che tra i Corinti era uso comune lasciare il coniuge per sposarsi con altra persona. Forse questa è la spiegazione. Ma allora non avrebbe detto “rimanga non-sposata (ἄγαμος)”, ma piuttosto “non sposi un altro uomo”. Come ho già detto, il termine ἄγαμος indica una condizione di libertà dal legame coniugale (cfr. vv 32,34); una donna, per restare "non-sposata", deve essere logicamente libera dal legame coniugale.

Paolo non usa il verbo apolùo e preferisce usare afìemi, ma il senso è lo stesso; e se apolùo è usato in riferimento al divorzio, anche afìemi potrebbe essere usato con lo stesso senso. Del resto, pur Yeshùa proclamando l'indissolubilità del matrimonio (ma in risposta alla provocazione dottrinale dei farisei e in senso "ideale", come Dio voleva "al principio"), egli non invalida affatto il ripudio promulgato da Mosè; di fatto non può, perché invaliderebbe un precetto della Toràh. Infatti, non dice che il ripudio di Mosè è abolito o non è giusto, dice solo che fu promulgato in virtù della debolezza umana e che "in principio" non era così, e che (agli occhi di Dio) il legame coniugale è in realtà indissolubile (nel Giardino di Dio). Il suo è un insegnamento che mette in risalto l'importanza dell'indissolubilità del vincolo in assoluto. Ma il comandamento sul ripudio resta valido. Se avesse invalidato il ripudio sancito dalla Toràh, avrebbe contraddetto se stesso quando insegna: “Poiché in verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, neppure un iota o un apice della legge passerà senza che tutto sia adempiuto. Chi dunque avrà violato uno di questi minimi comandamenti e avrà così insegnato agli uomini, sarà chiamato minimo nel regno dei cieli; ma chi li avrà messi in pratica e insegnati sarà chiamato grande nel regno dei cieli.” (Mt 5:18,19).

Yeshùa non poteva invalidare il ripudio sancito dalla Toràh, e lui stesso afferma che la Torah è immutabile. Insegna che il matrimonio non può essere sciolto “per un motivo qualsiasi”, rispondendo alla precisa domanda dei farisei; e che se è sciolto per un motivo qualsiasi che non sia la fornicazione, il ripudiante commette adulterio se si risposa, e il ripudiato è esposto all'adulterio (e chi sposa una persona ripudiata commette adulterio, ma non nel caso la persona sia ripudiata per giusta causa, poiché altrimenti contravverrebbe a Dt 24:1). Il suo insegnamento di fatto non contraddice Dt 24:1, che afferma che il ripudio è consentito nel caso in cui la donna sia colta in una condizione di indecenza morale (Yeshùa parla di fornicazione e secondo una prospettiva di genere), non in altri casi qualsiasi. E l'atto di ripudio serviva a proteggere tutte le parti dall'adulterio, perché liberava enntrambi i coniugi dal vincolo. Il matrimonio prevedeva che i due vivessero insieme; che senso avrebbe avuto mantenere un vincolo non vivendo insieme? Senza un valido motivo (condizione di indecenza morale o fornicazione) i due non potevano divorziare; ma in presenza di un valido motivo, la parte innocente poteva ripudiare ed entrambe le parti erano libere di risposarsi. Anche oggi, che senso ha la separazione? Nessuno.

Dunque, è possibile che il ripudio per giusta causa fosse ancora valido e che Paolo non stia parlando di separazione, ma proprio di divorzio?
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Gianni
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Re: Il difficile brano di 1Cor 7:36-38

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Ciao, Antonio.
Analizzando la questione che poni, si deve partire dal contesto specifico. In 1Cor 7:10 Paolo specifica: τοῖς ἀγάμοις, “agli sposati”. È dunque degli sposati che l’apostolo parla. Poi aggiunge che non lui ma il Signore ordina che la moglie non si separi e, al v. 11, che il marito non mandi via la moglie. Il matrimonio rimane quindi sempre vincolante. In questo chiaro contesto Paolo prevede però anche la possibilità della separazione da parte della moglie credente, accogliendo così la norma del diritto romano e greco che permetteva non solo all’uomo ma anche alla donna di separarsi.

Tu hai dei dubbi che Paolo stia parlando di separazione. Secondo te sta parlando di divorzio.
Credo che questa tua ipotesi non possa essere accolta, per vari motivi.

Tu stesso fai notare che Paolo non scende nei particolari sulle motivazioni della separazione. Ora, biblicamente, c’è una sola motivazione per il divorzio: l’adulterio. Se Paolo parlasse di divorzio e non di separazione, avremmo una grave incongruenza consentendo alla moglie separata di riconciliarsi col marito (v. 11). Ciò sarebbe infatti una violazione di Dt 24:1-4 che non ammetteva la riconciliazione dopo il divorzio. In più, la norma deuteronomica consentiva alla donna divorziata di risposarsi, per cui Paolo non potrebbe dire alla donna di rimanere ἄγαμος, “non sposata”.
E qui veniamo alla tua osservazione che una donna, per restare "non-sposata", deve essere logicamente libera dal legame coniugale. Il vocabolo ἄγαμος significa letteralmente “senza γάμος” ovvero “senza matrimonio”. Detto diversamente, “rimanga senza sposarsi”. Se fosse divorziata, come tu supponi, Paolo non potrebbe chiederle di rimanere “senza matrimonio”, perché ciò violerebbe Dt 24:2b.

Chiarito ciò, ora si spiega perché Paolo non scende nei particolari sulle motivazioni della separazione. Le ragioni possono essere diverse: il marito potrebbe essere un violento, un mezzo delinquente, un ubriacone, e chi più ne ha più ne metta. Una donna, anche credente, non è obbligata a sopportare un simile individuo. Può separarsi, ma senza poi risposarsi; oppure – se il marito cambia sul serio - può riconciliarsi con lui.
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