Filologia/Esegesi, alcuni dubbi

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AEnim

Filologia/Esegesi, alcuni dubbi

Messaggio da AEnim »

L'ultimo scambio con Gianni mi ha fatto venire in mente uno dei miei grossi interrogativi in merito a filologia/esegesi Biblica.

L'argomento degli ultimi tre post di altra cartella ( https://www.biblistica.eu/phpbb/viewtop ... 276#p72276 ) non è un esempio esemplare, ma lo uso per comodità.

Quello che non capisco della filologia biblica (filologia ed esegesi non sono la stessa cosa ma voglio partire assimilandole) è questo:

Se - per esempio - Isaia nel XXX a.C. scrive YY, sembra si dia per scontato che YY sia sempre stato così fin dai tempi di Mosè, o Abramo, o Noè, o Adamo (come se tutto il testo avesse un unico autore in una unica epoca ed il pensiero espresso dal testo fosse un pensiero unico sempre coerente a se stesso, senza evoluzioni temporali).

Funziona sempre, oppure vi sono cose in cui ravvisiamo dei cambiamenti, delle evoluzioni nel corso del tempo e questo metodo/processo di lettura non funziona più? (evidenzio la domanda, altrimenti non si percepisce più).

In questo caso in realtà la connessione fra nominare ed avere potere su qualcuno sembra abbastanza evidente. Poichè però spesso i profeti sono utilizzati per 'illuminare' la scrittura, ma come facciamo ad essere sicuri che Isaia, o chi per lui, avesse lo stesso granitico identico concetto in testa di Mosè? Perchè le idee cambiano, variano, anche - al limite - in termini di 'intensità', passando magari da 'vaga idea', ad idea più definita, da idea in nuce a idea che si svilupperà (o verrà fatta sviluppare).

E' un dubbio che mi sorge ogni volta che leggo esegesi ebraica, un senso di appiattimento temporale, a volte anche una sensazione di auto-retrodatazione (una abitudine un po' di ogni tradizione religiosa, e non solo, che nel muoversi sul solco della tradizione radica ogni idea presente nel passato, cercando di rappresenatarla come 'presente in nuce in precedenza').

Porto un altro esempio, anche se non sarà eccellente:
per esempio Abramo pianta un albero ai piedi del Monte Moriah dopo la legatura di Isacco, e questo albero viene interpretato in tanti modi, secondo uno fra questi viene interpretato essere il "palo del Mishkan", che verrà molto tempo dopo per cui il dopo diventa la spiegazione del prima, ma chi ce lo dice che davvero Abramo avesse in mente qualcosa di simile al 'palo del Mishkan'? Propriamente la cosa non mi convince per niente. Infatti una altra interpretazione lo dà per simbolo di un 'palo' generico, rendendo tale gesto di Abramo un gesto assimilabile ad idolatria sulla base di un passaggio del Sifrè che vieta pali, alberi e piantagioni in prossimità di un luogo di culto. Ma anche qui il dopo influisce sull'interpretazione del 'prima', perchè il midrash che dà questa lettura si focalizza sulle relazioni fallimentari fra ebrei e goim.
Una volta trovata la connessione che si vuole dare (l'una o l'altra) all'interno di un sistema coerente, non si indaga più e non lo si fa mai al di fuori di un sistema coerente precostituito.

Riflettevo sul fatto che non leggeremmo mai nessun'altro testo in questo modo (ovvero si tende fin troppo a leggere il passato alla luce del presente, ma filologicamente viene considerato un errore da evitare).
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Gianni
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Re: Filologia/Esegesi, alcuni dubbi

Messaggio da Gianni »

AEnim, la tua riflessione è molto interessante (e molto intelligente). Esegesi e critica testuale sono ambiti diversi, è vero, ma a volte la filologia biblica ci svela inserimenti esegetici postumi nella Scrittura, che i critici testuali sanno individuare. Ma ciò ci porterebbe fuori discorso. Fermiamoci quindi all’esegesi.

Per sua natura l’esegesi è sempre ovviamente postuma. Quella medievale, quella moderna e quella contemporanea, poi, risentono non solo dei secoli che le distanziano dalla Sacra Scrittura, ma soprattutto del fatto che si affacciano al testo biblico con mentalità occidentale; ciò non vale per gli ebrei, naturalmente, ma questi risentono delle interpretazioni rabbiniche che salvaguardano la loro tradizione (Yeshùa già diceva ai giudei suoi contemporanei che avevano reso la parola di Dio senza valore a causa della loro tradizione). Le sette odierne, poi, sono forse le più insensate nell’esegesi. Si pensi, tanto per fare un esempio, che la Watchtower spiega una certa piaga dell’Apocalisse con la distribuzione di un suo volantino in uno stadio dell’Illinois!

Nella Bibbia troviamo non raramente l’esegesi fatta dalla Bibbia stessa. Si pensi alle spiegazioni dei profeti, alle spiegazioni che Yeshùa dava a volte delle sue parabole, alle spiegazioni di Paolo. Quella interna alla Bibbia è l’esegesi migliore. A patto che i commentatori religiosi non si mettano a fare l’esegesi dell’esegesi volando di fantasia.

Personalmente penso che la cosa migliore sia entrare nell’ambiente storico del tempo e valutare le cose alla luce del loro ambiente, non allontanandosi mai dalla Scrittura.

C’è un’evoluzione di pensiero nella Bibbia? Sì che c’è. Si pensi, come esempio, alla morale biblica, che è un continuo progresso fino a Yeshùa. Ma, anche qui, bisogna sempre rimanere nel campo biblico, sapendo che in questo caso l’erba del vicino è velenosa.
AEnim

Re: Filologia/Esegesi, alcuni dubbi

Messaggio da AEnim »

Gianni ha scritto: domenica 19 settembre 2021, 18:39 Personalmente penso che la cosa migliore sia entrare nell’ambiente storico del tempo e valutare le cose alla luce del loro ambiente, non allontanandosi mai dalla Scrittura.
E' difficile. Cade a fagiolo l'esempio: non abbiamo nulla al di fuori del testo stesso per determinare alcun dato ulteriore circa l'albero che piantò Abramo e il senso reale per lui di quel gesto, temo non sappiamo esattamente nemmeno in che epoca sia vissuto se non approssimativamente. Non siamo nemmeno sicuri di che albero si trattasse,possiamo lavorare solo sul senso della parola che lo definisce, ammesso che si sia conservato. Oppure non sappiamo con certezza che idoli distrusse Abramo, le statue di quali divinità esattamente costruisse suo padre Terach. Il testo non ci dice queste cose, e non esistono testi esterni contemporanei che ce lo dicono perchè da Abramo a Mosè non ci sono scritti, l'unico scritto che c'è è il Tanach, e poi tutta l'esegesi che ci parla del testo comincia molto dopo. Questa oscurità ovviamente si presta a fare esegesi, e si può dire di tutto.

L'esegesi è importante, sicuramente. A me quella rabbinica piace. Ma credo di sentire la mancanza di un po' più di filologia, la quale penso abbia problemi ad esprimersi per il rischio di 'contrariare' le due sensibilità religiose che stanno attaccate al testo, che le determinazioni della filologia potrebbero anche essere scomode per qualcuna di queste sensibilità o per entrambe.

A me per esempio piacerebbe sapere, tanto per dirne una, perchè il racconto di Avimelech e di Faraone sembra essere lo stesso racconto raccontato due volte in due modi leggermente diversi, quasi come un remake cinematografico. E mi piacerebbe saperlo a prescindere da qualunque credo religioso o tradizionale sul testo, che sia rabbinico, o che sia cristiano. Uno strano modo di raccontare e chissà cosa aveva in testa chi ha scritto così (sembra già un midrashismo :) ) Purtroppo è difficile sentire parlare di questo testo al di fuori di una posizione o tradizione religiosa qualsiasi.
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Gianni
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Re: Filologia/Esegesi, alcuni dubbi

Messaggio da Gianni »

Questioni complesse, AEnim.

Circa quattro secoli dopo Noè troviamo un sacrificio animale ordinato da Dio ad Abraamo (Gn 15:9). In Gn 12:7 è di sua iniziativa che Abraamo costruisce un altare, poi ricordato in 13:4. Un altro altare da lui costruito è menzionato in Gn 13:18. Suo figlio Isacco mantenne questa consuetudine (Gn 26:25) e altrettanto fece suo nipote Giacobbe (Gn 33:20). In 33:20 si ha un problema di critica testuale: anziché leggere misbèakh (מִזְבֵּחַ), come nel Testo Masoretico, molti leggono matsevàh (מַצֵּבָה), “stele”, come in Gn 35:20. Che in Gn 31:46-53 il mucchio di pietre eretto da Giacobbe e da Labano servisse poi da altare sacrificale è mostrato dal v. 54: “Poi Giacobbe offrì un sacrificio sul monte”. In Gn 35:1 è Dio ad ordinare a Giacobbe di erigergli un altare (cfr. v. 7). In Gn 46:1 è detto che Israele/Giacobbe, “giunto a Beer-Sceba, offrì sacrifici al Dio d'Isacco suo padre”.
Nel culto sacrificale ebraico non è presupposta un’idea vaga della divinità, ma l’idea di un Dio personale. Ciò spiega perché in tali ambiti venga usato di più il titolo personale Yhvh.

Nel culto popolare sono evitati gli oggetti più tipicamente pagani, come le asheròt (אֲשֵׁרֽוֹת), i pali sacri eretti nei luoghi di culto cananei, nonostante qualche rimasuglio pagano che poteva esserci, dato che in Gs 24:2 è detto che “Tera padre di Abraamo e padre di Naor, abitarono anticamente di là dal fiume [Eufrate], e servirono gli altri dèi”. In effetti, in Gn qualche collegamento indiretto col culto lo troviamo. La “quercia di More” di Gn 12:6 è detta nel testo ebraico elòn (אֵלוֹן); questo vocabolo indica un grande albero (In Is 2:13 è un cedro; in Is 44:14 una quercia, come in Ez 27:6 e in Os 4:13; in Is 6:13 un terebinto). Un ricordo della funzione religiosa di queste querce lo rinveniamo in Gn 13:18: “Abramo continuò a vivere in tende. In seguito andò a stabilirsi fra i grandi alberi [אֵלֹנֵי (elonè), “querce di”] di Mamre, che sono a Èbron, e là eresse un altare” (TNM 2017). Non è affatto detto che l’altare eretto da Abramo fosse collegato al culto legato agli alonìm (אַלֹּונִים), ma è interessante notare che proprio lì il patriarca vi costruì un altare. L’elòn (אֵלוֹן) era indubbiamente legato alla sacralità del luogo. Fu sotto uno di quegli alonìm che Abramo si intrattenne con gli angeli inviati da Dio (Gn 18:1-8), e là gli fu promesso un figlio da Sara. - Gn 18:9-19.

Un testo basilare per comprendere il senso di matsevàh (מַצֵּבָה) è Gn 28:22, in cui Giacobbe dice: “Questa pietra [matsevàh (מַצֵּבָה), “stele”], che ho eretta come monumento, sarà la casa di Dio [בֵּית אֱלֹהִים (bèt elohìm), da cui il nome בֵּית־אֵל (bèt-èl) al v. 19]”; qui la stele è collegata a Dio. Questa matsevàh era stata presa da Giacobbe – come si legge al v. 11 – “da pietre del luogo” (מֵאַבְנֵי הַמָּקֹום, meavghè hamaqòm) e usata come cuscino per passare la notte. Poi “la mattina seguente Giacobbe si alzò presto, prese la pietra [אֶבֶן (èven)] che si era sistemato sotto la testa e la mise in piedi, come fosse una colonna [וַיָּשֶׂם אֹתָהּ מַצֵּבָה (vayasèm otàh matsevàh), “e pose essa stele”]; poi ci versò sopra dell’olio” (v. 18, TNM 2017). Anche in 35:14 Giacobbe versò dell’olio sulla stele che aveva eretto nel luogo in cui Dio gli aveva parlato; in questa occasione aggiunse una libazione (dal latino libo, “versare”, in ebraico נֶסֶךְ (nèsech); questo termine è usato per indicare il versamento di vino sull’altare. Nella descrizione della raccolta da terra della pietra e del suo successivo uso come poggiatesta, la pietra non è collegata a Dio, ma lo diviene quando Giacobbe la sistema come matsevàh, come stele. La stessa cosa farà Giacobbe nel siglare un patto con Labano, usando una pietra che, messa in verticale, diventa una stele: “Giacobbe prese una pietra [] e la mise in piedi, come fosse una colonna [matsevàh, “stele”]”. - Gn 31:45, TNM 2017.

Vediamo così che la matsevàh (מַצֵּבָה) assume diversi significati. Può essere una semplice colonna usata come rammemoratore di un patto, una stele funeraria, un monumento in onore di Dio. Lv 26:1 ne vieta l’uso idolatrico: “Non vi farete e non metterete in piedi né idoli, né sculture, né monumenti [matsevàh (מַצֵּבָה), “stele”, al singolare]”. Giacché questo divieto specifica “nella vostra terra”, ciò fa pensare che prima della conquista in Palestina le stele sacre venissero usate nei culti pagani. E infatti agli ebrei, una volta entrati in Palestina, fu ordinato di distruggerle (Dt 7:5; cfr. 16:22). Ai tempi di Giacobbe la Toràh non era ancora stata data, per cui egli poté essere spinto dall’uso che se ne faceva nei luoghi da lui percorsi, ma – questo è importante – evitando di cadere nell’idolatria. Al tempo dei re gli ebrei accolsero l’usanza religiosa pagana di erigere delle stele sacre (1Re 14:23; 2Re 3:2). Per ciò che riguarda il nostro argomento (le forme del culto) va detto che nella profezia di Is 19:19 una matsevàh in onore di Yhvh è collegata ad un altare pure in onore di Yhvh.
Per il resto, quanto ai riti, eccettuati quelli relativi ai santuari e al loro culto, in Gn altro non si trova. Il che è spiegabile con il contenuto dei testi genesiaci.

I racconti di Avimelech e del faraone non sono lo stesso racconto raccontato due volte. In tal caso non li troveremmo nello steso libro e a poca distanza tra loro. In ambedue è data una spiegazione nel testo stesso, ed è alquanto semplice.
AEnim

Re: Filologia/Esegesi, alcuni dubbi

Messaggio da AEnim »

Weh, come spieghi bene! :)
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Re: Filologia/Esegesi, alcuni dubbi

Messaggio da Gianni »

Troppo gentile. :-)
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