Uno studio metodico della Bibbia

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Gianni
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Uno studio metodico della Bibbia

Messaggio da Gianni »

Cari amici, ho una proposta. Che ne direste di iniziare metodicamente un esame della Sacra Scrittura? Intendo partendo dalle basi, cominciando a definire cos’è la Bibbia, cosa s’intende per ispirazione, quali sono i principi per la sua interpretazione, per poi passare man mano a conoscerla più in profondità.
Molti di voi conoscono già la Bibbia, ovviamente, ma definire meglio alcuni concetti potrebbe essere utile. Se poi avete suggerimenti sul percorso da seguire, possiamo decidere insieme. Se invece ritenete che sia poco utile, come non detto. :)
ilvigilante
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Re: Uno studio metodico della Bibbia

Messaggio da ilvigilante »

Caro Gianni,
se tu hai un metodo, perchè non approfittare.
Proviamo e vediamo cosa ne viene fuori. Non credo sia facile, perchè dovresti stabilire un programma di studio. Gli argomenti sono talmente tanti e non so quali criteri potresti usare. Anche perchè ogni argometo potrebbe portare a lunghe discussioni senza giungere mai alla fine.
Penso che innanzitutto, tu che conosci molto bene le Scritture, dovresti proporre dei concetti basilari insindacabili sui quali costruire, concetti di cui le stesse Scritture si esprimono in maniera chiara e inequivocabile; magari farne un elenco approssimativo su cui possiamo meditare per poi farne oggetto di conversazione.
marco
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Re: Uno studio metodico della Bibbia

Messaggio da marco »

Certo che ci stò, caro Gianni.
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francesco.ragazzi
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Re: Uno studio metodico della Bibbia

Messaggio da francesco.ragazzi »

Non ho mai fatto uno studio metodico della S.Scrittura, ne approfitto !
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Gianni
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Re: Uno studio metodico della Bibbia

Messaggio da Gianni »

Molto bene! Ho già in mente un certo criterio da seguire, ma preferirei adattarlo man mano che procediamo, in modo da non chiuderci in un programma scolastico. All’inizio con tutta probabilità per molti potrà sembrare quasi banale porre certe basi, ma sono certo che anche chi conosce già bene la Scrittura può fare interessanti scoperte. Mi piace molto ciò che ha detto Ilvigilante: “Concetti basilari insindacabili sui quali costruire”. Mi atterrò a ciò, evitando di scivolare in questioni dottrinali.
Bene, iniziamo, allora! :)
La parola “Bibbia” deriva dal greco τὰ βιβλία (ta biblìa), che è il plurale di βιβλίον (biblìon), “libretto”. Ta biblìa (τὰ βιβλα) significa quindi “i libretti”. Bìblos era anche il nome greco della città fenicia di Ghebal, famosa per la produzione di carta di papiro (pianta dal cui interno si ricavava una specie di carta). “Bibbia” è quindi una raccolta di “libretti”. Perché questo plurale? Per il fatto che la Bibbia non era all’origine un libro unico. Sebbene oggi la Bibbia costituisca un libro unico, in realtà essa è composta da più libri (libretti, appunto): 66, per l’esattezza. Il nome greco ta biblìa (i libretti) era già in uso nel 2° secolo della nostra èra. Ne troviamo anche traccia nella stessa Sacra Scrittura: “Io, Daniele, meditando sui libri” (Dn 9:2). Nel 1° secolo della nostra èra Paolo scriveva a Timoteo: “Quando verrai porta . . . i libri, specialmente le pergamene” (2Tm 4:13). Sebbene spesso siano tradotte con “rotolo/i”, le parole βιβλίον (biblìon, “libretto”) e βίβλος (bìblos, “libro”) compaiono più di 40 volte nelle Scritture Greche. La parola greca τὰ βιβλία (ta biblìa), che è un plurale, fu poi usata in latino come singolare: bìblia. Da questa parola latina (traslitterata dal greco) deriva parola italiana “Bibbia”.

Due Testamenti? Comunemente la Bibbia viene suddivisa in due sezioni: “Vecchio Testamento” e “Nuovo Testamento”. Sebbene d’uso comune perfino tra studiosi, teologi ed esegeti, queste espressioni sono del tutto errate.
L’errore è sorto dalla non comprensione della traduzione in latino che la Vulgata fece del passo di 2Cor 3:14. In NR suona così: “Sino al giorno d'oggi, quando leggono l'antico patto, lo stesso velo rimane, senza essere rimosso”. Nella Vulgata è: “Obtusi sunt sensus eorum usque in hodiernum enim diem id ipsum velamen in lectione veteris testamenti manet”. L’espressione latina veteris testamenti è al genitivo (del); il nominativo è testamentum. “Per ignoranza della filologia del latino più tardo e volgare, una volta si supponeva che testamentum, con cui la parola è resa sia nelle prime versioni latine che nella Vulgata, significasse ‘testamento’, mentre in realtà significa anche, se non esclusivamente, ‘patto’” (cfr. Edwin Hatch, Essays in Biblical Greek, Oxford, 1889, pag. 48). Giovanni Diodati, un traduttore della Bibbia del 17° secolo, cadde nell’errore e tradusse così il passo: “Le lor menti son divenute stupide; poiché sino ad oggi, nella lettura del vecchio testamento, lo stesso velo dimora senza esser rimosso”. Martini fece lo stesso errore. In latino testamentum significa “patto”, ma in italiano è tutt’altro. La lezione (con “lezione” si intende la lettura di una parola o frase in un manoscritto così come è scritta in originale) dei manoscritti qual è? Nel testo greco la parola usata è διαθήκη (diathèke) che - come in tutti i 32 casi in cui ricorre nel testo greco – significa “patto”. Si noti Sl 83:5: “ stringono un patto contro di te [Dio]”. La traduzione greca della LXX usa per “patto” il proprio il vocabolo diathèke (διαθήκη) (nella LXX il passo è in 82:6). Ora, qui nessuno si sognerebbe di dire che i nemici hanno fatto testamento contro Dio.
Si noti ora cosa afferma un’enciclopedia biblica: “Avendo la LXX reso ברית [berìt] (che non significa mai testamento, ma sempre patto o accordo) con διαθήκη tutte le volte che ricorre nel V. T., si può naturalmente supporre che gli scrittori del N. T., nell’adottare tale parola, intendessero trasmettere la stessa idea ai loro lettori, la maggioranza dei quali conoscevano bene il V. T. in greco. . . . Nel passo, indubbiamente difficile, di Eb ix, 16, 17, la parola διαθήκη secondo molti commentatori deve assolutamente significare testamento. D’altra parte, però, si può far notare che, oltre a ciò che è stato appena detto circa il consueto significato della parola nel N. T., la parola ricorre due volte nel contesto, in casi in cui il suo significato deve necessariamente essere uguale alla traduzione di ברית [berìt], e nell’incontestabile senso di patto. - Cfr. “διαθήκη καινή”. - John McClintock e James Strong. Cyclopedia of Biblical, Theological, and Ecclesiastical Literature, Grand Rapids, Michigan, ristampa del 1981, vol. II, pag. 544.
In ogni caso il contesto stesso del passo fa escludere che la parola diathèke (διαθήκη), “patto”, possa riferirsi a tutta la Bibbia ebraica, perché – dopo aver detto che “quando leggono” rimane un “velo” - il versetto successivo (v. 15) dice: “Fino a oggi, quando si legge Mosè, un velo rimane steso sul loro cuore”. Con “Mosè” si fa riferimento ai soli primi cinque libri della Bibbia, quelli appunto che contengono “l’antico patto”.
Dato che “Vecchio Testamento” è un’espressione errata, ne consegue che pure quella derivata di “Nuovo Testamento” è errata.
Le Scritture si possono quindi dividere più correttamente in Scritture Ebraiche e Scritture Greche, facendo riferimento alle lingue in cui queste due parti furono scritte.
La prima sezione della Sacra Scrittura (erroneamente detta Vecchio Testamento) è composta da 39 libri, scritti in ebraico con alcune piccole parti in aramaico. Per gli ebrei la Bibbia è solo questa. Diversi studiosi la chiamano “Bibbia ebraica”. Noi ci riferiremo ad essa con il nome di Scritture Ebraiche. Non accettando Yeshùa come loro messia, gli ebrei non accettano ovviamente i Vangeli e tutto l’erroneamente detto Nuovo Testamento.
La seconda sezione della Bibbia (il cosiddetto Nuovo Testamento) è composta da 27 libri, scritti in greco. Questa è la parte cosiddetta cristiana, che include i quattro Vangeli. Sebbene i semplici credano che Vangelo e Bibbia siano cose diverse, il Vangelo (o meglio i Vangeli, dato che sono quattro) fa parte del cosiddetto Nuovo Testamento. Noi ci riferiremo a questa parte della Bibbia col nome di Scritture Greche.

I nomi che gli ebrei davano alla Bibbia. Sebbene il nome Bibbia sia comunemente usato, tale espressione è moderna. Come era chiamata anticamente quella che noi oggi chiamiamo “Bibbia”? Mt 21:42 riferisce una frase di Yeshùa (Gesù) in cui egli si riferisce alla Bibbia chiamandola “Scritture”. Il greco è γραφαί (grafài). – Cfr. anche Mt 21:42; Mr 14:49; Lc 24:32; Gv 5:39; At 18:24, Rm 15:4.
In Rm 1:2 Paolo le chiama “sacre Scritture” e in 2Tm 3:15,16 prima le chiama “sacri scritti” (ἱερὰ γράμματα, ierà gràmmata) e poi “Scrittura”, al singolare (γραφή, grafè). Il termine compare sia al singolare che al plurale. Il plurale è appropriato, dato che si tratta – come abbiamo visto – di un insieme di singoli libretti. Il singolare è pure appropriato, dato che quei libretti costituiscono alla fine un testo unico. L’aggiunta dell’aggettivo “sacra” o “sacre” è del tutto biblico.
Sulla base di questi passi biblici riteniamo che le espressioni “Scrittura”, “Sacra Scrittura”, “Scritture” e “Sacre Scritture” siano del detto appropriate.

Prima di proseguire attendo domande e, perché no, suggerimenti. :)
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francesco.ragazzi
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Re: Uno studio metodico della Bibbia

Messaggio da francesco.ragazzi »

In effetti "Patto" è molto appropriato, mentre "Testamento" sà di ultime volonta di un qualcuno che sta morendo....o è già morto .-
ilvigilante
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Re: Uno studio metodico della Bibbia

Messaggio da ilvigilante »

Va benissimo, Gianni
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Gianni
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Re: Uno studio metodico della Bibbia

Messaggio da Gianni »

Ora parleremo di rivelazione e ispirazione. Si tratta di due fenomeni diversi che non si possono confondere tra loro. La rivelazione consiste nel manifestare qualcosa che prima era nascosto; "rivelare" significa, infatti, togliere il velo che prima occultava qualcosa. Quando s’immerge una pellicola in un’emulsione adatta essa rivela la sua immagine. Quando Champollion poté decifrare il segreto dei segni geroglifici egizi, egli rivelò il segreto di questa scrittura. Gli studi moderni stanno rivelando il segreto dei "geni", fonte della personalità, che prima era nascosto. I nostri sentimenti rimangono nascosti in noi fino a quando non li riveliamo ad altri con dei fiori o specialmente con la parola. Qui non studiamo questa rivelazione da uomo ad uomo, bensì la rivelazione che Dio stesso dona all'uomo. Vari sono i mezzi con cui Dio può rivelare se stesso: l'opera del creato, la storia, la parola.
1. Il Creato. Giacché Dio ha creato tutti gli esseri ed ha dato un nome a tutti gli esseri creati, fissandone così la natura (Gn 1), ne viene che questi devono recare l'impronta del loro creatore. Dio, infatti, conta il numero delle stelle, le chiama tutte per nome: “Egli conta il numero delle stelle, le chiama tutte per nome” (Sl 147:4). Paolo può perciò scrivere: “Le sue [di Dio] qualità invisibili, la sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente fin dalla creazione del mondo essendo percepite per mezzo delle opere sue” (Rm 1:20). L'autore biblico ispirato vede questa rivelazione non in forma di ragionamento sillogistico, ma d’intuizioni simboliche. La natura è in un certo senso il rivestimento della potenza divina: “I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento annunzia l'opera delle sue mani” (Sl 19:1). “La gloria di Dio” è raccontata dal firmamento intero senza parole, infatti giorno e notte “non hanno favella, né parole; la loro voce non s'ode” (Sl 19:3). Il Salmo 29 canta Dio presente nella tempesta: “La voce di Geova è sopra le acque; il glorioso Dio stesso ha tuonato. Geova è sopra molte acque. La voce di Geova è poderosa; La voce di Geova è splendida” (Sl 29:3,4, TNM). Dio è più potente d'ogni tumulto delle acque straripanti: “I fiumi hanno alzato, o Geova, i fiumi hanno alzato il loro suono; i fiumi continuano ad alzare il loro fragore. Al di sopra dei suoni delle vaste acque, le maestose onde fluttuanti del mare, Geova è maestoso nell’alto” (Sl 93:3,4, TNM). Poiché l'uomo può dare il nome agli animali, nel linguaggio biblico vuol dire che ne è superiore e può comprenderne l'intima essenza che Dio ha dato loro. È segno che il linguaggio divino nel creato può essere compreso dall'uomo (Gn 2). Anche Kant, dopo aver detto che non possiamo conoscere teoricamente Dio con la ragione, affermava che lo si poteva scoprire mediante il cielo stellato al di là di noi e della legge morale dentro di noi. Fra' Luis da Granada paragona alcune creature a “lettere modellate e miniate che perfettamente attestano l'eccellenza e la sapienza del loro autore “. Questa rivelazione generale manifesta Dio come l'onnipotente e il dominatore dell'universo, ma non presenta alcun messaggio di salvezza. Di più, il peccatore rifiuta di riconoscere questa rivelazione. Come Paolo scrisse nella lettera ai Romani, al cap. 1, il peccatore non accoglie questo insegnamento per la malvagità delle sue opere cadendo così nell'idolatria: “Le sue qualità invisibili [di Dio], la sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente fin dalla creazione del mondo essendo percepite per mezzo delle opere sue; perciò essi sono inescusabili, perché, pur avendo conosciuto Dio, non l'hanno glorificato come Dio, né l'hanno ringraziato; ma si son dati a vani ragionamenti e il loro cuore privo d'intelligenza si è ottenebrato. Benché si dichiarino sapienti, son diventati stolti, e hanno mutato la gloria del Dio incorruttibile in immagini simili a quelle dell'uomo corruttibile”. - Rm 1:20-23.
2. Rivelazione di Dio che dirige la storia umana. Questa rivelazione si è attuata nella storia, specialmente in quella del popolo ebraico. La storia è sviluppata da grandi personaggi che con le loro imprese straordinarie hanno trasformato la direzione della storia: si pensi a Ciro, ad Alessandro, a Cesare, a Napoleone. Vi è qualcosa dietro la loro azione? Vi si esplicano solo impulsi sociologici oppure attraverso la storia è Dio che si rivela? A prima vista parrebbe di no. Sembrerebbe di assistere a un film in lingua ignota di cui non si riesce a capire il senso, perché manca la spiegazione della voce narrante. Anche la storia rimane incomprensibile senza una voce che ce la spieghi, il che si ha con il messaggio profetico. Così i profeti della scuola deuteronomica ci mostrano la benedizione divina verso Israele quando questa agisce bene e la punizione quando essa opera male (Dt 11:13-28). Narrando i fatti, il cronista li interpreta, e mostra come Dio abbia guidato Israele punendola quando ha prevaricato. Gli scrittori sacri, nella conquista della Palestina da parte di Israele vedono Dio che forma il suo popolo perché divenga luce delle altre nazioni, anche se purtroppo questo non sempre si è avverato: “Se tu ti chiami Giudeo, ti riposi sulla legge, ti vanti in Dio, conosci la sua volontà, e sai distinguere ciò che è meglio, essendo istruito dalla legge, e ti persuadi di essere guida dei ciechi, luce di quelli che sono nelle tenebre, educatore degli insensati, maestro dei fanciulli, perché hai nella legge la formula della conoscenza e della verità; come mai dunque, tu che insegni agli altri non insegni a te stesso? Tu che predichi: ‘Non rubare!’, rubi? Tu che dici: ‘Non commettere adulterio!’, commetti adulterio? Tu che detesti gli idoli, ne spogli i templi? Tu che ti vanti della legge, disonori Dio trasgredendo la legge? […] Giudeo è colui che lo è interiormente […] di un tale Giudeo la lode proviene non dagli uomini, ma da Dio” (Rm 2:17-23,29). Gli apocalittici (Daniele e Giovanni), anche se non insistono sul principio precedente della retribuzione (che non è norma assoluta), insegnano che la storia è guidata da Dio verso l'espressione più perfetta del regno di Dio, anche se nei particolari ciò non appare. Evidentemente la visione divina della storia si può intravedere rivolgendoci al passato alla luce della voce profetica della Bibbia, ma si potrà conoscere appieno solo alla fine del tempo presente quando la nostra mente si uniformerà alla mente di Dio. Per ora la storia va valutata solo alla luce della parola divina; la storia da sola è incapace di rivelarci appieno l'azione con cui Dio si rivela all'uomo.
3. La parola. Dio si è costituito un popolo (Israele) per attuare la sua redenzione; ad esso ha inviato i suoi profeti. Questa rivelazione divina raggiunse la sua pienezza in Yeshùa, figlio di Dio, che ne costituisce l'atto culminante. Essa fu simultaneamente attuata con atti e con parole. Yeshùa il consacrato poté dire di sé: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14:6) e ancora: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (14:9). Commentando le parole: “Ascoltatelo” (Mt 17:5), Calvino scrisse: “In queste parole vi è più valore e forza di quanto usualmente si pensi. È come se, allontanandoci da ogni dottrina umana ci conducesse solo verso il suo figlio; ci chiedesse di attendere da lui tutta la dottrina della salvezza, a dipendere da lui, in breve (come indicano le parole in loro stesse) ad ascoltare esclusivamente la sua voce” (Calvino , Istituz. Div. 4,8,7). La parola è il mezzo efficace con cui noi possiamo comunicare i nostri sentimenti: possiamo conoscere ciò che Geremia provava dinanzi a Gerusalemme che sta per essere distrutta dalle sue parole a singhiozzo che esprimono il dolore da lui provato: “Le mie viscere! Le mie viscere! Sento un gran dolore! Le pareti del mio cuore! Il mio cuore mi freme nel petto! (Ger 4:19). Con la parola possiamo insegnare, manifestare la nostra cultura, comunicare i nostri risultati, esprimere le nostre idee, manifestare i nostri suggerimenti, dare le nostre disposizioni. Anche Dio, se vuole comunicarci qualcosa, deve scegliere delle parole umane che noi possiamo comprendere. Deve agire nella stessa maniera di un missionario che adatta il vangelo ai popoli di cultura meno progredita, o di un catechista che adatta la parola di Dio alla comprensione di un bambino. Si tratta di condiscendenza divina, bene espressa dal Crisostomo nel suo commento a “Dio passeggiava sul far della sera”: “Consideriamo che solo per la nostra debolezza la Sacra Scrittura ricorre ad un umile linguaggio, per operare la nostra salvezza in modo degno di Dio” (Crisostomo , In Gn 3:8 Omelia 17 PG 53,135). Parlando della creazione di Adamo commenta: “Non prendere le parole in senso umano, ma attribuisci alla debolezza umana lo stile materiale. Infatti se la Scrittura non impiegasse tali parole, come potremmo apprendere i misteri ineffabili?” (Crisostomo , In Gn 2 Omelia 12 PG 53,121). Per attuare questo, Dio ha adoperato degli uomini, che ha costituito suoi profeti, come leggiamo nella Lettera agli ebrei: “Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1:1,2). È evidente che il profeta non ha bisogno che tutto gli sia rivelato. Egli poté narrare da solo dei fatti a lui noti quando ne fu testimone (Gv 1:14) o quando li studiò personalmente. In questi casi non ebbe bisogno di una speciale rivelazione. Quando Giovanni o Matteo scrivevano dei fatti relativi a Yeshùa ai quali avevano assistito, non avevano bisogno di una speciale rivelazione. Tutt'al più necessitavano di un aiuto dello spirito santo per non dimenticare ciò che avevano udito e che era necessario per illuminare gli uomini e suscitare in essi la fede: “Lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto” (Gv 14:26). Luca studia le fonti, interroga i testimoni oculari, per cui non aveva bisogno di una rivelazione per narrare i risultati dei suoi studi: “È parso bene anche a me, dopo essermi accuratamente informato di ogni cosa dall'origine, di scrivertene per ordine” (Lc 1:3). La rivelazione era invece necessaria per ciò che il profeta non poteva conoscere per conto suo.
Floriano
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Iscritto il: martedì 1 aprile 2014, 14:33

Re: Uno studio metodico della Bibbia

Messaggio da Floriano »

Caro Gianni
mi aggiungo volentieri anch'io allo studio metodologico della bibbia

Un saluto
Floriano
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Gianni
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Re: Uno studio metodico della Bibbia

Messaggio da Gianni »

Grazie, Floriano, ma ci ho ripensato. Meglio andare avanti con singole discussioni. In effetti, da molte discussioni vedo che manca una certa base biblica, per cui sarebbe necessaria un po’ di propedeutica biblica, ma non credo sia il caso di farla qui.
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