Yeshùa ed il divorzio

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Salvatore Tarantino
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Re: Yeshùa ed il divorzio

Messaggio da Salvatore Tarantino »

Erano già passati secoli e secoli quando si scandalizzarono gli avversari di Yeshúa e perfino i discepoli (se è così allora non conviene prendere moglie!, dissero).
Quindi, Bgaluppi, nulla di strano, sapevamo già che si sbagliano su questo argomento.

Non ho altro da aggiungere.
Sarebbe inutile ripetizione.
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Salvatore Tarantino
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Re: Yeshùa ed il divorzio

Messaggio da Salvatore Tarantino »

Massimo, non avevo notato la tua citazione di Geremia.
Incredibilmente oggi l'ho comunque trovata senza cercarla.
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Salvatore Tarantino
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Re: Yeshùa ed il divorzio

Messaggio da Salvatore Tarantino »

Mimymattio, dimostra che per secoli si erano tramandati cose sbagliate.
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bgaluppi
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Re: Yeshùa ed il divorzio

Messaggio da bgaluppi »

Insomma, mettendo insieme tutti i pezzi del puzzle e non ignorando la pratica tradizionalmente seguita sin dai tempi mosaici e forse prima, io vedo che Yeshùa, rispondendo ai farisei che volevano capire la sua opinione in tema di divorzio, conferma perfettamente la Torah e il pensiero della scuola di Shammai:

“Beit Shammai dice: Un uomo non può divorziare da sua moglie a meno che non scopra che è coinvolta in una questione di rapporti sessuali proibiti [devar erva], cioè ha commesso adulterio o è sospettata di farlo, come è affermato: "Perché ha trovato in lei una cosa sconveniente [ervat davar] e le scrive un libretto di ripudio" (Deuteronomio 24:1).”.

La differenza con Shammai consiste nel fatto che Yeshùa identifica la motivazione per il divorzio nella fornicazione, mentre Shammai fa specifico riferimento all'adulterio. Parliamo un momento della cosiddetta “fornicazione”, che in italiano non si capisce bene cosa sia.

Ciò che Yeshùa chiama “fornicazione” è πορνεία (pornèia), anticamente facente riferimento alle relazioni sessuali illecite e alla prostituzione, benché il termine sia usato raramente dagli autori classici; in Os 2:2 (2:4 sulla LXX) il termine compare in associazione a μοιχεία (moichèia), che fa riferimento specifico all’adulterio: αὐτὴ οὐ γυνή μου, καὶ ἐγὼ οὐκ ἀνὴρ αὐτῆς: καὶ ἐξαρῶ τὴν πορνείαν αὐτῆς ἐκ προσώπου μου καὶ τὴν μοιχείαν αὐτῆς ἐκ μέσου μαστῶν αὐτῆς, “lei [la Casa di Israele] non è più mia moglie, e io non sono più suo marito! Tolga dalla sua faccia le sue prostituzioni, e i suoi adulteri dal suo petto” (NR). I due termini, pur essendo spesso usati assieme, sono qui distinti: pornèia è “prostituzione” in senso più generale, mentre moichèia è precisamente “adulterio”; il profeta poi aggiunge: “Non avrò pietà dei suoi figli, perché sono figli di prostituzione [בני זנונים]; perché la loro madre si è prostituita; colei che li ha concepiti ha fatto cose vergognose, poiché ha detto: "Seguirò i miei amanti [מאהבי], che mi danno il mio pane, la mia acqua, la mia lana, il mio lino, il mio olio e le mie bevande"” (vv. 4,5 NR). Il testo ebraico ha בני זנונים “figli di prostituzione”, e il termine זְנוּנִים (zenunim) deriva da זָנָה (zanah) e riguarda la relazione illecita anche in senso figurato, in riferimento ai rapporti di Israele con nazioni straniere o divinità pagane (cfr. Is 23:17; Ez 23:30; Dt 31:16; Lv 17:7). La pornèia, dunque, è il comportamento illecito, sia esso da intendersi letteralmente o figuratamente, all’interno del matrimonio o fuori dal matrimonio (in base ai divieti stabiliti in Lv 18, 20). In relazione al matrimonio, è innanzitutto “adulterio”, ossia il “prostituirsi” con persona che non sia il coniuge, ma anche un comportamento dichiarato illecito dalla Torah, come ad esempio: “Non ti avvicinerai a una donna per scoprire la sua nudità mentre è impura a causa delle sue mestruazioni” (Lv 18:19); “Non darai i tuoi figli perché vengano offerti a Moloc” (v. 21); “Non ti accoppierai con nessuna bestia per contaminarti con essa” (v. 23); “Se qualche persona si rivolge agli spiriti e agli indovini per prostituirsi andando dietro a loro, io volgerò la mia faccia contro quella persona, e la toglierò via dal mezzo del suo popolo” (Lv 20:6). L’apostasia è paragonata alla prostituzione, dunque può essere considerata pornèia, e costituiva motivo valido di divorzio anche per la moglie (cfr. Maimonide, Mishneh Torah, Ishut, iv. 15). Che Yeshùa, con il termine “fornicazione”, non facesse riferimento esclusivo all’adulterio, è chiaro, poiché altrimenti l’agiografo avrebbe usato il termine moichèia, come in Mt 15:19 (Mr 7:21), o in Mt 5:32 e 19:9, in cui usa il verbo μοιχεύω (moichèuo) da cui origina moichèia.

Ora, osserva cosa dice Paolo in 1Cor 7:12-16 riguardo alle coppie miste; sii paziente e prova a seguire il mio ragionamento, anche se è lungo, poi ti spiego perché ti cito questo versetto (fai attenzione al grassetto):

“Agli altri dico io, non il Signore: se un nostro fratello ha la moglie non credente e questa consente a rimanere con lui, non la ripudi; e una donna che abbia il marito non credente, se questi consente a rimanere con lei, non lo ripudi: perché il marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente; altrimenti i vostri figli sarebbero impuri, mentre invece sono santi. Ma se il non credente vuol separarsi, si separi; in queste circostanze il fratello o la sorella non sono soggetti a servitù; Dio vi ha chiamati alla pace! E che sai tu, donna, se salverai il marito? O che ne sai tu, uomo, se salverai la moglie?” (CEI)

Il caso qui trattato riguarda in modo specifico quelle situazioni in cui una persona, già sposata precedentemente (“se un fratello ha [ἔχει, èchei, presente indicativo] una moglie... la donna che ha un marito”) e poi divenuta credente ed entrata a far parte della comunità, si trovava ad essere legata ad una persona che non era divenuta credente e dunque non faceva parte della comunità. Paolo sta parlando alla persona divenuta credente che era già sposata e si trovava evidentemente a fronteggiare una crisi matrimoniale intervenuta a causa del cambiamento del suo stile di vita, dovuto alla sua scelta di fede. Se Paolo avesse parlato ai credenti che decidevano di sposare una persona pagana dopo la conversione, avrebbe detto “se un fratello sposa una persona non credente”; evidentemente, nella comunità non esistevano casi simili, poiché Paolo non li tratta e non li contempla, come risulta dal v. 39, in cui dichiara che la moglie, ora libera per la sopraggiunta morte del marito, può risposarsi “purché lo faccia nel Signore”. Due persone, che prima condividevano uno stile di vita comune, adesso si trovavano a seguire due strade diverse, e ciò poteva comportare seri problemi, soprattutto per i figli. Il non credente non poteva far parte della comunità, poiché essa rappresenta simbolicamente il “corpo di Cristo” (1Cor 12:27) e vi si accede solo tramite la fede e il battesimo (ciò richiama la circoncisione, che sancisce l’appartenenza a Israele, il popolo di Dio, cfr. Col 2:11; Rm 2:26,29).

οὐ δεδούλωται ὁ ἀδελφὸς ἢ ἡ ἀδελφὴ ἐν τοῖς τοιούτοις
non è reso schiavo il fratello o la sorella in questi casi

Il termine δουλόω (dulòo) usato al v. 15 significa “rendere schiavo”, “assoggettare”, dunque, se il credente non è “reso schiavo” (costretto) da una situazione, significa che ne è libero, ossia svincolato. La giusta causa per il divorzio secondo Yeshùa, come abbiamo visto, era la fornicazione, termine piuttosto generico che fa riferimento figurato anche all’idolatria (il “prostituirsi” con altri dèi) e a qualsiasi pratica sessuale dichiarata illecita dalla Torah; e la donna poteva pretendere il divorzio da un marito apostata (Maimonide, Mishneh Torah, Ishut, IV 15), il che ovviamente valeva soprattutto per il marito, in base a Dt 24:1. La potenziale difficoltà per un credente di convivere in matrimonio con una persona pagana, dedita a costumi non conformi alla Torah, richiama anche la legge biblica di Dt 7:3-4 (cfr. anche Ne 10:30), che vieta agli israeliti di sposare stranieri onde scongiurare il pericolo che il coniuge pagano potesse portare l’israelita e la sua discendenza all’idolatria e all’abbandono dell’obbedienza alla Torah e che la discendenza ebraica fosse interrotta; tale proibizione è discussa dai maestri di Israele:

“[La proibizione di sposare] le loro figlie [degli stranieri] è un'ordinanza biblica, perché è scritto, ‘e non farai matrimoni con loro!’ [Dt 7:3]. L'ordinanza biblica è ristretta alle sette nazioni [di Canaan] e non include altri popoli pagani; e [le scuole di Hillel e Shammai] vennero e decretarono anche contro queste. Ma secondo 'R. Simeon b. Yohai che ha dichiarato che le parole, ‘Poiché egli allontanerà tuo figlio dal seguirmi’ [Ibid.], include tutte le donne che volgono [i loro mariti altrove dall'adorazione di Dio], cosa c'è da dire? Forse [la spiegazione è che] l'ordinanza biblica è contro il rapporto sessuale attraverso il matrimonio, e sono venuti e hanno decretato persino contro una connessione immorale con loro. Ma il decreto contro tale connessione era già stato fatto dal Tribunale di Shem, perché è scritto, ‘E Giuda disse: Portala fuori e lasciala bruciare!’ [Gn 38:24]. Forse, allora, [la spiegazione è che] l'ordinanza Biblica si riferisce a una donna israelita nei rapporti con un pagano poiché sarebbe stata influenzata da lui ma non contro un israelita che ha rapporti con una donna pagana, e arrivarono e decretarono persino contro quest'ultimo” (‘Abodah Zarah 36b).

Nella Torah leggiamo:

“Non t'imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché distoglierebbero da me i tuoi figli che servirebbero dèi stranieri e l'ira del Signore si accenderebbe contro di voi” (Dt 7:3-4).

Forse hai capito dove voglio arrivare... Ma continuiamo.

Rashi, nel suo commento a Dt 7:3-4, spiega che se la figlia di un israelita sposa il figlio di uno straniero, lui condurrà la progenie fuori dalla strada della Torah: i loro figli saranno quindi considerati ancora ebrei in quel caso, poiché figli di madre ebrea, ma inevitabilmente si allontaneranno dall’obbedienza alla legge di Dio. Nel caso invece che il figlio di un israelita sposi una ragazza non ebrea, i loro figli non sono più considerati figli dell’israelita, ma figli di lei: ossia, non sono più ebrei. Un pagano divenuto credente, dunque, non doveva certo temere di interrompere una discendenza, ma poteva temere di essere ricondotto all’idolatria dal coniuge pagano che non era credente; e poteva temere per l’educazione dei figli, che si sarebbero trovati a vivere in una situazione conflittuale, avendo due genitori che seguivano stili di vita e princìpi diversi.

Dal passaggio deuteronomico citato, i maestri di Israele deducono anche che in un matrimonio misto non sussiste “alcuna istituzione di matrimonio” (“Non t’imparenterai con loro”), cioè, i matrimoni misti non sono legalmente validi per gli ebrei e non causano alcun cambiamento nello stato personale (Ḳiddushin 68b; Yebamot 45a). Quindi se il partner ebreo in un tale matrimonio successivamente desidera sposare un ebreo, non vi è alcun bisogno, secondo la halakhah, di divorziare dal precedente matrimonio, che non è riconosciuto. Anche Paolo sembra in parte sposare questa linea, eliminando costrizioni ed obblighi per ambo le parti, e lasciando la scelta alla parte non credente, non a quella credente: il coniuge che, nel momento in cui diveniva credente, si trovava ad essere già legato ad una persona non credente, poteva restare sposato con quella persona se questa accettava la nuova situazione ed acconsentiva a restare insieme (e in virtù di ciò, quest’ultima era santificata grazie al coniuge credente, pur restando pagana); nel caso contrario, il credente poteva separarsi liberamente da lei, ossia sciogliere il vincolo e divorziare per giusta causa, in quanto non poteva essere soggetto ad una condizione che lo costringeva a condividere se stesso con una persona pagana dedita a costumi e credenze proibite dalla Torah, che spesso portavano alla fornicazione, anzi costituivano virtualmente fornicazione in se stesse in quanto credenze idolatre.

Per cui, il pagano convertito e già sposato con un coniuge pagano, secondo Paolo, faceva bene a restare sposato, ma ammesso che il coniuge fosse consenziente. Altrimenti, il credente era libero di divorziare. Il divorzio, nei casi in cui i due avessero difficoltà a convivere in pace, era facilmente attuabile, in quanto il matrimonio biblico legale e vincolante di cui parla Yeshùa è quello che interviene tra due persone che — in virtù della stessa fede e appartenenza — si sposano “davanti a Dio” e la loro unione è quindi stabilita da Dio (“ciò che Dio ha unito...”). È ovvio che un matrimonio stabilito da Dio sia quello tra due persone che credono in Dio, non quello tra pagani non credenti. A ciò si potrebbe obbiettare che il matrimonio stabilito originariamente dalla Torah tra i due primi uomini riguardi tutti gli uomini, poiché ancora non esistevano né il popolo di Israele né i credenti; ma è ovvio che in principio non esisteva neppure il problema dell’idolatria, e quell’unione inscindibile e perfetta che la Torah contempla per l’uomo fu concepita nel giardino in Eden (una condizione di perfezione stabilita da Dio) prima della disobbedienza e della cacciata dell’uomo dal giardino.

Il succo è questo. Un credente che si ritrova la moglie o il marito apostata perché magari ha perso la fede, come deve comportarsi? Può divorziare dal coniuge? Se il coniuge arriva a comportarsi in modi che sono proibiti da Dio, inclusa l'idolatria (pensa a quanti abbandonano la fede e riempiono la casa di statuette dell'omino grasso..., o immagini, simboli e altro), io credo che sia libero di divorziare da lui o lei per fornicazione e dunque essere libero di risposarsi. Potrebbe essere una lettura troppo spinta, ma avendola vissuta sulla mia pelle, so esattamente di cosa sto parlando. E non hai idea quanto siano vere le parole di Dt 7:3-4 e quelle di Rashi citate sopra! Per non parlare di 1Cor 7:12-16. Ho vissuto tutto alla lettera. Tante cose le si comprendono solo quando si vivono.

Per finire, un uomo che picchia la moglie non commette forse “fornicazione” attraverso la violenza verso la sua metà, che dovrebbe amare come se stesso? Non è questa una forma di disprezzo esattamente come tradire? La mancanza di cura e amore verso il coniuge non è forse dimostrazione che tra i due non esiste alcun vincolo voluto da Dio? E la povera donna che viene abusata dal marito, il quale magari abusa sessualmente anche dei figli (casi reali di cronaca), come dovrebbe comportarsi? Stare zitta e accettare tutto perché è donna — come sostengono alcuni — o divorziare da lui e denunziarlo al tribunale?

Per questo, invito chiunque a riflettere sul fatto che non è possibile fermarsi agli apparenti significati che un uomo moderno non ebreo può percepire leggendo la Torah o i Vangeli tradotti in italiano, ma è necessario andare a fondo, cercando innanzitutto di immedesimarsi nelle situazioni e nella cultura ebraica di Yeshùa e meditando attentamente su ciò che potrebbe sfuggire ad una lettura frettolosa. Io mi chiedo cosa avrebbe risposto Yeshùa ad una donna che gli avesse chiesto: “Maestro, mio marito mi picchia, non si cura di me e mi disprezza con parole terribili: cosa devo fare?”. Le avrebbe detto “Restagli sottomessa” oppure, come consentiva la legge ebraica, le avrebbe consigliato di rivolgersi al tribunale e chiedere il divorzio?
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Salvatore Tarantino
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Re: Yeshùa ed il divorzio

Messaggio da Salvatore Tarantino »

Secondo me la discussione sta diventando poco seria.
Bisognerebbe lasciar parlare solo la bibbia invece di inventare tanti nuovi motivi per divorziare e risposarsi.
Massimo-W-la-Bibbia

Re: Yeshùa ed il divorzio

Messaggio da Massimo-W-la-Bibbia »

Concordo in pieno con Salvatore, le Scritture sono e devono essere l'unica fonte. Come chiusura posso solo dire che l'adulterio e la fornicazione più in generale è un peccato devastante, non è solo questione di vincolo matrimoniale. Che si faccia parte del vero popolo fisico di Dio dei tempi antichi o del popolo spirituale di oggi dopo aver accettato Cristo ed essersi ravveduti, questo è un peccato che squalifica chi lo commette, lo caccia fuori squadra. Poi capisco che la Tradizione rabbinica abbia voluto regolamentare nei tempi antichi questi casi, ma sono casi che non appartengono più alla squadra di Dio.
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bgaluppi
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Re: Yeshùa ed il divorzio

Messaggio da bgaluppi »

Mattia, questo è tipico di chi ha poca voglia di studiare. Come spesso dice Noiman, studiare, studiare. Ma se uno non vede che la Torah afferma il nuovo matrimonio della donna e lo regolamenta pure, allora è dura... Scusate ma io, come sapete, ho poco tempo per via di una situazione familiare difficile, e quando il molto tempo che dedico alla discussione viene snobbato, chiudo le trasmissioni.

Certo 'sti ebrei sono proprio duri. Per millenni hanno consentito alla donna di risposarsi, violando la Torah con un libretto di ripudio sbagliato... Salvatore, informali, ti ringrazieranno.
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Salvatore Tarantino
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Re: Yeshùa ed il divorzio

Messaggio da Salvatore Tarantino »

Li ha già informati Yeshúa.
Molti non hanno gradito.
Oggi è ancora peggio.
Non solo per gli ebrei, per tutti.
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bgaluppi
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Re: Yeshùa ed il divorzio

Messaggio da bgaluppi »

E dove mai Yeshùa avrebbe detto che la donna non poteva risposarsi? In realtà, Yeshùa non li informa, ma risponde ad una loro domanda e i farisei non replicano a Yeshùa. Se avesse affermato che la donna non poteva risposarsi, in un ambito in cui si risposava tranquillamente, non credi che avrebbero avuto da ridire, come altre volte hanno avuto da ridire su certi suoi insegnamenti? Ciò che non gradirono fu altro, non certo il suo pensiero sul matrimonio, che è conforme alla Torah e al pensiero dei maestri suoi contemporanei.

“1 Quando un uomo sposa una donna che poi non vuole più, perché ha scoperto qualcosa di indecente a suo riguardo, le scriva un atto di ripudio, glielo metta in mano e la mandi via. 2 Se lei, uscita dalla casa di quell'uomo, diviene moglie di un altro 3 e se quest'altro marito la prende in odio, scrive per lei un atto di divorzio, glielo mette in mano e la manda via di casa sua, o se quest'altro marito, che l'aveva presa in moglie, muore, 4 il primo marito, che l'aveva mandata via, non potrà riprenderla in moglie, dopo che lei gli è stata contaminata, poiché sarebbe cosa abominevole agli occhi del Signore. Tu non macchierai di peccato il paese che il Signore, il tuo Dio, ti dà come eredità.” - Dt 24:1-4

Secondo te, il fatto che il testo presenti la possibilità che la donna ripudiata sposasse un altro uomo non conferma che lo potesse fare. Stando a questo strano ragionamento, anche il v. 1, la cui costruzione è identica, non dovrebbe confermare che fosse lecito che uomo sposasse una donna:

L'uomo scrive un atto di ripudio, lo mette in mano alla donna e la manda via (v. 1b) - Apodosi, che mette in evidenza il risultato che deriva dal realizzarsi della condizione della protasi. Quando si realizza questa conseguenza?

Quando un uomo sposa una donna che poi non vuole più, perché ha scoperto qualcosa di indecente a suo riguardo (v. 1a) - Protasi, che esprime la condizione da cui dipende la reggente. Se la Torah dichiarasse illecito il nuovo matrimonio di una ripudiata, lo proibirebbe. La Torah dà ordini su cosa fare (mitzvot positive) e proibizioni su cosa non fare (mitzvot negative). Non esiste proibizione sul nuovo matrimonio di una ripudiata, ma esiste la regolamentazione di questa eventualità, e la stiamo discutendo. Quando la Torah regolamenta una cosa, è perché quella cosa è permessa (infatti la regolamenta), altrimenti la proibisce (non regolamenta l'adulterio, lo proibisce).

Secondo il tuo ragionamento, che applichi nell'altro versetto e dunque devi applicare anche qui, la protasi non esprime necessariamente che sia lecito che un uomo sposi una donna che poi non vuole più, dunque l'uomo non dovrebbe sposarsi, oppure non potrebbe desiderare di liberarsi di quella donna neppure se scopre qualcosa di indecente a suo riguardo (dunque il comandamento sul ripudio sarebbe sbagliato!).

Il primo marito, che l'aveva mandata via, non potrà riprenderla in moglie, dopo che lei gli è stata contaminata (v. 4) - Apodosi. Qual è la condizione perché ciò accada?

Se lei, uscita dalla sua casa, diviene moglie di un altro (v. 2)
Se il secondo marito la prende in odio, scrive per lei un atto di divorzio, glielo mette in mano e la manda via di casa sua oppure muore (v. 3) - Protasi

Secondo il tuo ragionamento, non è lecito che lei, ripudiata, sposi un altro; e non è lecito che il secondo marito la prenda in odio e la ripudi oppure muoia.

Allo stesso modo, se io dico: “Quando un uomo o una donna avrà fatto un voto speciale, il voto di nazireato, per consacrarsi al Signore [protasi], si asterrà dal vino e dalle bevande alcoliche [apodosi]” (Num 6:2,3), significa forse che un uomo o una donna non possono fare voto di nazireato?

Io credo che tu neghi l'evidenza della liceità di nuovo matrimonio della donna ripudiata perché altrimenti dovresti ammettere che Yeshùa non poteva dichiarare che la giusta causa di divorzio (fornicazione) rendeva libera la donna di risposarsi. Questo perché sei prigioniero di una idea preconcetta nei confronti della donna.

PS. Salvatore, ma tu hai qualcosa contro le donne?
Massimo-W-la-Bibbia

Re: Yeshùa ed il divorzio

Messaggio da Massimo-W-la-Bibbia »

BGaluppi, Mattia, non è una questione di snobbare gli studi di qualcuno, ma probabilmente partiamo da presupposti e fondamenti differenti. Mostrate una grande fiducia nelle tradizioni rabbiniche e nelle loro interpretazioni, fiducia che io onestamente non ho. Basta confrontare Shammai ed Hillel su "qualcosa di indecente", versioni esattamente opposte, peccato che Hillel era prevalente, pensa a quante adulteri sono stati giustificati dalla tradizione rabbinica, sconfessata da Gesù che ha chiaramente detto che solo la fornicazione giustifica l'allontanamento del coniuge colpevole, moglie o marito che sia. Viene riabilitato/a con un libello ed il suo grave peccato perdonato? Il mio intendimento è che in linea generale uno/a che commetta tale infedeltà dovrebbe contorcersi a vita nel proprio intimo per un errore del genere, pregando ed implorando Dio nella speranza della sua misericordia, non invece pensare ad un secondo matrimonio. La pensiamo diversamente.
Un caro saluto
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