Scritture greche alla luce dell'interpretazione ebraica

trizzi74
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Re: Scritture greche alla luce dell'interpretazione ebraica

Messaggio da trizzi74 »

Ciao Besàseà, desidero porti questa domanda visto che sei ebreo:
Nelle Scritture Ebraiche c'è qualcosa che possa farci pensare che gli ebrei credevano in una risurrezione celeste invece che terrena?

Io credo che nelle Scritture Ebraiche si fa solo qualche accenno a una risurrezione terrena o fisica ( esempio Dn.12:2)
"Le religioni sono sistemi di guarigioni per i mali della psiche, dal che deriva il naturale corollario che chi è spiritualmente sano non ha bisogno di religioni."
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bgaluppi
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Re: Scritture greche alla luce dell'interpretazione ebraica

Messaggio da bgaluppi »

La fede è una prerogativa delle religioni e le religioni sono l'oppio dei popoli.
Questa frase, di Karl Marx, è usata spesso per liquidare l'argomento "religione" senza doverlo approfondire. La fede, caro Besasea, non è affatto una prerogativa delle religioni, ma di chi venera Dio. La grande maggioranza dei religiosi non crede in Dio, ma nella dottrina della propria istituzione religiosa. La Scrittura è piena di grandi uomini di fede, e sono proprio quegli uomini che hanno determinato la nascita e la sopravvivenza di Israele. Forse tu hai un concetto "distorto" di fede: fede è pìstis, ossia fedeltà, lealtà, da pèitho, persuado, convinco; dunque, fede è “divina persuasione”, che deriva dal fatto che Dio si fa conoscere agendo nella nostra vita. Più o meno come avvenne ai grandi uomini biblici di cui sopra.
Ho l'impressione che tu stia creando una nuova religione, mischiando concetti malcompresi dell'ebraismo con quanto hai selezionato dal NT.
Non faccio altro che riportare ciò che leggo, parola per parola, e notare grandi similitudini con ciò che è scritto nelle Scritture Greche, a parte la dottrina dell'anima immortale come distinta dal corpo. Trovo grandi similitudini anche in alcune cose che leggo dello Zohar, anche se anche lí spesso riscontro grosse influenze da parte del pensiero ellenistico. Maimonide non era affatto il materialista razionale che spesso viene dipinto. Egli distingue tra era messianica e mondo a venire come due cose ben diverse: “Abbiamo spiegato che la resurrezione dei morti [...] non rappresenta la mèta ultima, dato che la mèta ultima è la vita del mondo a venire. [...] Nel menzionare il mondo a venire, abbiamo anche là [M.T. Penitenza, III, 14] precisato che esso rappresenta la mèta ultima, esprimendoci testualmente così: "Esso rappresenta la ricompensa superiore a qualsiasi altra e il bene oltre il quale non ve ne è altro".” (da Trattato sulla Resurrezione dei Morti, II).

Queste sono parole di un uomo di fede. E non sono parole mie. Gli stessi concetti li ritroviamo nelle Scritture Greche. Apocalisse presenta un mondo “intermedio”, il regno millenario, in cui il messia regna con i suoi santi, seguìto dal giudizio e dalla Gerusalemme celeste, la mèta superiore ed ultima, che sarebbe il mondo a venire di cui parla Maimonide. Nessuna nuova religione. La religione dice che quando si muore si va all'inferno, in purgatorio o in paradiso. ;)
trizzi74
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Re: Scritture greche alla luce dell'interpretazione ebraica

Messaggio da trizzi74 »

Besàseà ha scritto:
trizzi74 ha scritto:Ciao Besàseà, desidero porti questa domanda visto che sei ebreo:
Nelle Scritture Ebraiche c'è qualcosa che possa farci pensare che gli ebrei credevano in una risurrezione celeste invece che terrena?
Assolutamente nulla. Tutto ciò che riguarda la vita dell'anima all'infuori del corpo è frutto dell'influenza pagana. Sono tutti concetti filosofici estranei che non hanno origine nel popolo di Israel e nella Bibbia ebraica.
Quando ti ho posto la domanda sulla credenza di una risurrezione celeste da parte degli ebrei non intendevo riferirmi “alla vita dell'anima all'infuori del corpo che è frutto dell'influenza pagana”.
Intendo riferirmi a una risurrezione celeste che avviene mediante l’intervento Dio che permette a questi risuscitati di ricevere un corpo adatto alla vita nei cieli.
Questo viene spiegato dall’apostolo Paolo in sua lettera con queste parole: “è seminato corpo naturale e risuscita corpo spirituale. Se c'è un corpo naturale, c'è anche un corpo spirituale”. – 1 Corinti 15:44

C’è traccia di una credenza simile nelle Scritture Ebraiche?
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bgaluppi
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Re: Scritture greche alla luce dell'interpretazione ebraica

Messaggio da bgaluppi »

Certo, nella vita di chiunque ha fede in un dio, che si fa conoscere al suo fedele, chiunque dio egli sia.
No, Besasea, non qualunque dio. Il Dio, l'Unico Dio, che non è sotto il copyright del popolo di Israele, scusa la franchezza. Dio non crea l'ebreo, crea l'adam, e tu stesso affermi che ogni uomo è un "figlio di Dio". Un falso dio, che non esiste, non può rivelarsi a nessuno. Questo Dio Uno e Unico si rivela in modo potente nella vita di chi Lui sceglie; è Lui a rivelarsi a chi vuole e nella misura in cui vuole, altrimenti nessun uomo potrebbe conoscerLo. È Lui che si è rivelato a Mosè, non Mosè che Lo ha chiamato. Dunque, ciò non dipende dalla volontà umana. Per avere fede in questo Dio, è ovvio che bisogna averLo conosciuto per esperienza, altrimenti come si potrebbe aver fede in qualcosa o qualcuno che non si conosce? Sarebbe una follia. E se si conosce anche una minima parte di Dio, come si può poi farne a meno? Vabbè, lasciamo perdere...
La fede è concepita dall'ebraismo come lealtà ad uno stile di vita. E' il rimanere fermi ai propri binari senza deragliare. Ma ciò riguarda l'osservanza dei comandamenti e non le credenze filosofiche.
“E dov'è l'uomo che può affermare di esser stato capace di adempiere alla lettera la mizwà: "Ama il prossimo tuo come te stesso"? Dov'è la preoccupazione per l'inadeguatezza spirituale di ciò che a detta di tutti non dovrebbe essere abbandonato? Dov'è l'angoscia per l'aridità della nostra preghiera e per la convenzionalità del nostro obbedire? Il dilemma a cui bisogna senz'altro dare risposta non è allora "tutto o niente", abbandono totale o piena osservanza della legge. Il problema è se siamo alla ricerca di un'obbedienza autentica oppure contraffatta, genuina o artificiosa. Il problema non è quanto ma come obbedire. Dobbiamo verificare se obbediamo per davvero, oppure se ci prendiamo gioco della parola di Dio.” (A. J. Heschel, Man's Quest for God. Studies in Prayer and Symbolism. Grassetto e corsivo aggiunti per enfasi).

Aggiungo una domanda, sulla linea della riflessione di Heschel, che non vuole essere provocatoria ma diretta, perché qualcosa mi sfugge. Se gli antichi osservavano così bene i comandamenti, nel giusto modo, secondo il come e non il quanto, come mai la Bibbia afferma il contrario? Perché Dio, sia nel Pentateuco che nei profeti, si lamenta continuamente proprio del come (e non del quanto) il Suo popolo osservava i Suoi comandamenti? Se l'osservanza era praticata nel giusto modo, che motivo avrebbe avuto Dio di lamentarsi?
Gesù dice che chi crede in lui ha già la vita come un regalo, ma chi non crede vedrà lira di Dio incombere su di lui. Questo dimostra già quanto il NT è lontano dalla mentalità delle Scritture Ebraiche
Una visione troppo riduttiva. Le parole di Yeshùa devono essere sempre esaminate e meditate a fondo. Tu insisti con la religione, con le dottrine cristiane, e mostri quanto— in realtà — tu stesso sia influenzato "negativamente" dal cristianesimo (non lo dico con tono di critica). Perché i Vangeli non hanno nulla a che fare con una certa dottrina cristiana, e non parlano neppure di anima immortale come separata dal corpo.
In questo forum si tratta di Biblistica e gli argomenti devono avere attinenza con la Bibbia, se ti allarghi sulle concezioni filosofico-religiose odierne sei fuori tempo.
Ok, ma il titolo del post è “Scritture greche alla luce dell'interpretazione ebraica”, dunque ho riportato le parole di un grande interprete ebreo come Maimonide — che sto leggendo con calma — e le ho messe a confronto con le Scritture Greche, trovando molti punti di convergenza che spesso non emergono nei dialoghi tra ebrei e non ebrei, per colpa delle dottrine e dei dogmi cristiani da un lato, e dei pregiudizi e preconcetti che sussistono dall'una e dall'altra parte. Bisogna liberarsi dei preconcetti, più che della fede. Io capisco bene la tua interpretazione, e ne riscontro la veridicità leggendo il testo biblico. Ma come tu ben sai, ogni interpretazione non è necessariamente "giusta" rispetto alle altre "meno giuste". Dipende tutto dalla disposizione di ognuno: chi non crede che Dio possa operare "miracoli", ossia eventi che noi non riusciamo a spiegare, leggerà razionalmente ogni evento miracoloso descritto nella Bibbia; chi ci crede, lo leggerà diversamente. A volte non è facile restare obbiettivi; del resto, con il frutto della conoscenza del bene e del male, l'obbiettività l'abbiamo persa.

Non c'è bisogno di dire che un brano non è autentico (infatti tu lo ritieni autentico) solo perché espone un'interpretazione che non si accetta (a meno che non ci siano validi motivi di critica testuale); o trovare "giustificazioni" per ciò che viene affermato. Maimonide dice quelle parole e le ribadisce, citandole di nuovo e mettendole bene in evidenza. Dunque è convinto. Allora, o Maimonide ha preso un grossissimo abbaglio, o forse le risposte non sono sempre semplici. Io non credo a "questo" o a "quello" come verità assoluta, ponendomi in contrasto con chi non la pensa come me. Io valuto ogni posizione (biblicamente rispettabile) e mi accorgo che tutte hanno dei punti in comune, ma anche che c'è una grande confusione tra i cristiani (per via delle dottrine pagane da cui sono influenzati) e un grande "assortimento" di vedute tra gli ebrei. Questo era vero in Giudea anche al tempo di Yeshùa, in cui gli ebrei erano divisi in scuole e fazioni diverse e a volte anche opposte (basta pensare ai sadducei, gli esseni, gli zeloti, gli ellenisti, i samaritani...). Queste diversità di pensiero non sono state eliminate e mi pare sopravvivano ancora oggi con ultra-ortodossi, ortodossi, tradizionali, laici, etc..

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Re: Scritture greche alla luce dell'interpretazione ebraica

Messaggio da bgaluppi »

Alessia, per me vale una cosa sopra ogni altra: la mia libertà di pensiero. Nel mondo, invece, esistono fazioni, gruppi, classi, categorie, razze, sette, organizzazioni, compagnie, governi, dove ci sono sempre dei capi che dettano le regole di giustizia e verità che ogni adepto o impiegato o membro deve seguire alla lettera, pena l'ostracizzazione. Ogni gruppo pretenderebbe di fare agli altri il lavaggio del cervello e poi rieducarli con la sua "verità". Io, invece, sono libero, e lascio che gli altri siano liberi. Seguo l'ottimo consiglio di Paolo: “esaminate ogni cosa e ritenete il bene, astenetevi da ogni forma di male” (1Tes 5:21,22). :-)
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Gianni
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Messaggio da Gianni »

Trizzi ha domandato a Besaseà se nelle Scritture Ebraiche c'è qualcosa che possa farci pensare che gli ebrei credevano in una risurrezione celeste invece che terrena.

Besaseà ha risposto: Assolutamente nulla.

Besaseà ha ragione.

Come si ponevano gli antichi nei confronti della morte? La Bibbia dice: “Dio ha fatto ogni cosa bella al suo tempo: egli ha perfino messo nei loro cuori il pensiero dell'eternità, sebbene l'uomo non possa comprendere dal principio alla fine l'opera che Dio ha fatta” (Ec 3:11). Noi possediamo ben più che l’istinto di sopravvivenza. Ai bambini e ai ragazzini l’età adulta appare lontanissima; agli adulti appare lontana la vecchiaia; alle persone molto anziane, finché stanno bene, il giorno dell’inevitabile morte appare estraneo. Non ci stupiamo quindi che in tutte le religioni e anche presso gli antichi ci sia l’idea di un qualcosa che supera la morte. È noto che presso gli egizi c’era la convinzione della continuazione della vita nell’aldilà. I greci svilupparono questa idea in modo filosofico, asserendo che ci fosse una parte incorporea dell’essere umano che non moriva e a cui diedero il nome di psyché (ψυχή). Nella cultura biblica giudaica non troviamo questa idea pagana filosofica, bensì la speranza della risurrezione.
Bisogna però osservare che i primi scritti della Bibbia non presentano né l’idea dell’immortalità né la speranza della risurrezione. Negli scritti biblici più tardi troviamo però la fede nella risurrezione. Per la precisione, questa idea si fece strada l’apocalittica giudaica.
Il libro biblico di Ecclesiaste, che è alquanto tardivo (della seconda parte del 3° secolo a. E. V.) è ancora ancorato alla retribuzione durante la vita, nella quale tutto si gioca e si esaurisce. Vi si legge, infatti:
“La sorte dei figli degli uomini è la sorte delle bestie; agli uni e alle altre tocca la stessa sorte; come muore l'uno, così muore l'altra; hanno tutti un medesimo soffio, e l'uomo non ha superiorità di sorta sulla bestia; poiché tutto è vanità. Tutti vanno in un medesimo luogo; tutti vengono dalla polvere, e tutti ritornano alla polvere. Chi sa se il soffio dell'uomo sale in alto, e se il soffio della bestia scende in basso nella terra? Io ho dunque visto che non c'è nulla di meglio per l'uomo del rallegrarsi nel compiere il suo lavoro; tale è la sua parte; infatti, chi potrà farlo tornare per godere di ciò che verrà dopo di lui?”. - Ec 3:19-22.

Con Ec siamo alquanto vicini alla comparsa della letteratura apocalittica, che iniziò a fiorire nel 2° secolo a. E. V.. Fino ad allora rimaneva insoluto il problema della morte, cui si potevano opporre solo domande pressanti sul perché la morte colpisca allo stesso modo il giusto e il peccatore. Recita un passo della letteratura ebraica non biblica: “Il nostro nome sarà dimenticato con il tempo e nessuno si ricorderà delle nostre opere. La nostra vita passerà come le tracce di una nube, si disperderà come nebbia scacciata dai raggi del sole e disciolta dal calore” (Sapienza 2:4, CEI). Fu l’insieme dei problemi connessi alla riflessione sulla teodicea (la giustizia di Dio) che stimolò la ricerca di soluzioni.

Nella Sacra Scrittura l’essere umano è considerato un’unità (nèfesh) e non composto da corpo e anima come presso i greci. L’ebreo rispondeva al problema della morte con l’ubbidienza a Dio e affidandosi a Dio. Dalle antiche e poetiche parole del salmista emerge tutta la fiducia dell’ebreo in Dio. – Sl 73:23-28.


Pur nel dolore più profondo l’ebreo aveva la convinzione che Dio è più forte della morte e che non solo ha la potenza ma anche la volontà di strapparlo alla morte. Si sente talmente unito al suo Dio che ardisce chiedergli che quell’intima comunione prosegua anche nel futuro. Nelle immagini apocalittiche ante litteram i morti rivivono: “Rivivano i tuoi morti! Risorgano i miei cadaveri! Svegliatevi ed esultate, o voi che abitate nella polvere!” (Is 26:19); “Così dice il Signore, Dio, a queste ossa: «Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e voi rivivrete; metterò su di voi dei muscoli, farò nascere su di voi della carne, vi coprirò di pelle, metterò in voi lo spirito, e rivivrete; e conoscerete che io sono il Signore»” (Ez 37:5,6). In questi passi non si pensa ancora ad una risurrezione reale, ma si esprime così la ricomposizione di tutto il popolo di Dio. Va però evidenziato che Dio compie il prodigio usando la sua forza attiva, il suo spirito santo: “Metterò in voi il mio Spirito [רוּחַ (rùakh)], e voi tornerete in vita” (Ez 37:14). Ciò richiama Gn 2:7 in cui Dio diede vita al primo uomo infondendogli “un alito vitale” (נְשָׁמָה, neshamàh).

L’unico passo biblico che nel Tanàch parla chiaramente di risurrezione appartiene all’apocalittica e si trova in Dn 12:2 “Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno”.
Il concetto di risurrezione – pensiero del tutto nuovo - iniziò così a diffondersi nel giudaismo, ma non senza difficoltà. Spesso fu rifiutato. Ancora al tempo di Yeshùa c’erano coloro che vi si opponevano: “I sadducei dicono che non vi è risurrezione”. - At 23:8.


La nuova speranza della risurrezione provocò un cambiamento nell’idea ebraica del soggiorno dei morti. Non credendo all’esistenza di un’anima separata dal corpo (che non è biblica) non si poteva neppure accettare l’idea che ci fossero nello sheòl degli spettri. I giusti deceduti non potevano neppure rimanere sempre nella tomba o sheòl. Si immaginò così lo sheòl diviso in due zone. Prima lo sheòl era “terra delle tenebre e dell'ombra di morte: terra oscura come notte profonda”, terra dove si andava “per non più tornare” (Gb 10:21,22); era anche luogo di silenzio: “Non sono i morti che lodano il Signore, né alcuno di quelli che scendono nella tomba” (Sl 115:17). Nella nuova prospettiva, nello sheòl non c’era più un’unica area che accoglieva tutti i morti, ma c’erano due settori. Uno era sempre quello buio e tenebroso, l’altro era illuminato e aveva al centro una sorgente d’acqua. Tra i due settori c’era un’enorme baratro che li teneva divisi. Questa nuova concezione ebraica si trova anche in una parabola di Yeshùa:
“C'era un uomo ricco, che si vestiva di porpora e di bisso, e ogni giorno si divertiva splendidamente; e c'era un mendicante, chiamato Lazzaro, che stava alla porta di lui, pieno di ulceri, e bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; e perfino i cani venivano a leccargli le ulceri. Avvenne che il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abraamo; morì anche il ricco, e fu sepolto. E nell'Ades [ᾅδης (àdes), corrispondente allo שְׁאוֹל (sheòl) ebraico], essendo nei tormenti, alzò gli occhi e vide da lontano Abraamo, e Lazzaro nel suo seno; ed esclamò: «Padre Abraamo, abbi pietà di me, e manda Lazzaro a intingere la punta del dito nell'acqua per rinfrescarmi la lingua, perché sono tormentato in questa fiamma». Ma Abraamo disse: «Figlio, ricòrdati che tu nella tua vita hai ricevuto i tuoi beni e che Lazzaro similmente ricevette i mali; ma ora qui egli è consolato, e tu sei tormentato. Oltre a tutto questo, fra noi e voi è posta una grande voragine, perché quelli che vorrebbero passare di qui a voi non possano, né di là si passi da noi»”. – Lc 16:19-26.

Sebbene non si sapesse ancora come immaginare la risurrezione, di certo si dava per scontato il recupero di un corpo fisico. Non si deve poi fare l’errore d’interpretare la letteratura giudaica extrabiblica secondo le odierne idee religiose. Usando un linguaggio ellenistico vi si parla infatti di “anime” o “spiriti” dei defunti, ma si tratta solo di termini presi a prestito senza accoglierne le implicazioni filosofiche. Mentre i greci consideravano il corpo come una tomba e l’uscita dell’anima immortale come una liberazione, per gli ebrei l’importante era la corporeità e per farla rivivere occorreva lo spirito. La redenzione si aveva quindi con la risurrezione, non con l’immortalità.

Dio è Giudice. Questa idea, che è biblica, era comune anche nell’antico Oriente. Siccome Dio è anche Giudice, ciò presuppone un ordine da lui stesso stabilito. Con il popolo che lui ha scelto, c’è quindi un patto che significa salvezza per il popolo stesso. Dio è però anche Giudice del mondo intero e di tutte le nazioni. Ciò comporta che il giudizio di Dio è volto a ristabilire l’ordine messo a soqquadro dagli uomini. In che modo Dio ristabilisce l’ordine? In due modi paralleli:
• Punisce i malvagi per rimetterli in riga, e può anche distruggerli;
• Protegge i giusti, liberandoli e salvandoli.

Il Sl 1 sintetizza poeticamente proprio questo concetto: “Beato l'uomo che non cammina secondo il consiglio degli empi … Egli sarà come un albero … Non così gli empi … gli empi non reggeranno davanti al giudizio”. - Passim.
Questo procedimento divino è evidente, ad esempio, nel caso del giudizio sulle nazioni che fecero del male al popolo di Dio. In Is 13 troviamo l’annuncio della punizione della Babilonia, per la cui sconfitta Israele gioisce (Is 14); poi tocca ai popoli limitrofi ed è la volta di Moab (Is 15) che è in angoscia (Is 16); poi tocca alla Siria (Is 17), all’Etiopia (Is 18) e all’Egitto (Is 19). “Il Signore infatti avrà pietà di Giacobbe, sceglierà ancora Israele, e li ristabilirà sul loro suolo” (Is 14:1). Il giudizio di Dio diventa alla fine mondiale: “Ecco, il Signore vuota la terra e la rende deserta; ne sconvolge la faccia e ne disperde gli abitanti” (Is 24:1). Israele stessa è punita per i suoi peccati. Dio quindi distingue sì il suo popolo dalle nazioni, ma distingue anche tra giusti e peccatori dentro il suo popolo.
Il giudizio divino è descritto a volte come un processo in tribunale: “Ascolta la parola del Signore, popolo d'Israele: «Io, il Signore, voglio fare un processo agli abitanti di questa regione»” (Os 4:1, TILC). Altre volte è descritto con l’immagine della vendemmia: “Ho pigiato le nazioni, le ho calpestate con furore e collera. Il loro sangue è sprizzato” (Is 63:3, TILC). Altre ancora con la mietitura: “Sono gente malvagia. Tagliatele come grano maturo” (Gle 4:13, TILC), con la trebbiatura: “il Signore vi radunerà a uno a uno, come si raccolgono le spighe” (Is 27:12, TILC). A volte sono utilizzate immagini belliche: “Il Signore avanza come un eroe, come un guerriero è pronto alla battaglia. Lancia grida di guerra, e affronta con coraggio i suoi nemici”. – Is 42:13, TILC.
Tutti i giudizi di Dio avvengono nella storia. Il “giorno di Yhvh” (Am 5:18), “il Dio grande, forte e tremendo, che non ha riguardi personali” (Dt 10:16), accade nella storia umana dei popoli.
Alcuni dei testi biblici che abbiamo considerato vanno oltre e additano la conclusione della storia umana recando una condizione del tutto nuova.

Nell’apocalittica giudaica la storia è un’attesa di un evento del tutto nuovo che porta la storia alla sua fine. Siccome poi la storia appare come un periodo in cui Dio sembra assentarsi, il suo giudizio è atteso non sono come ristabilimento dell’ordine ma come venuta di Dio stesso. Possiamo trovare anche nelle Scritture Ebraiche della Bibbia questa prospettiva?

Se si leggono attentamente alcuni passi, sì. Riprendiamo, come esempio, il Sl 1 già citato. Nel dichiarare “beato l'uomo che non cammina secondo il consiglio degli empi” (v. 1), la visione appare in termini terreni: “Tutto quello che fa, prospererà” (v. 3), e il salmista ha in mente fin qui la vita terrena del giusto. Poco più oltre si ha però un balzo in avanti, escatologico: “Gli empi non reggeranno davanti al giudizio, né i peccatori nell'assemblea dei giusti” (v. 5). Che cos’è l’“assemblea dei giusti”? Se il salmista avesse voluto fare solo una distinzione tra giusti e peccatori riferendosi allo loro vita, poteva fermarsi al v. 4: “Non così gli empi, anzi sono come pula che il vento disperde”. Egli però va oltre e parla di “giudizio” al futuro (“non reggeranno”). Anche il fatto che gli empi “non staranno in piedi” (TNM) “nell'assemblea dei giusti” è al futuro. Il salmista pare proprio attendersi un giudizio divino futuro. L’“assemblea dei giusti” è allora la comunità messianica del nuovo mondo? Pare proprio di sì. Yeshùa userà la stessa immagine: “Così sarà al termine del sistema di cose: gli angeli usciranno e separeranno i malvagi di mezzo ai giusti”. - Mt 13:49, TNM.

In Is 65:17 Dio annuncia: “Ecco, io creo nuovi cieli e una nuova terra”. Letto in chiave moderna religiosa, si pensa al nuovo mondo, ma il contesto mostra che è di Gerusalemme rinnovata che si parla. Si noti poi che proprio nulla si dice circa l’eliminazione dei vecchi cieli e della vecchia terra. Solo nell’apocalittica troveremo la loro scomparsa e la loro sostituzione: “Vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi”. - Ap 21:1.

Il giudizio finale di Dio segna una netta separazione tra il prima e il dopo. Tutto il male sparisce ed esiste solo il bene. Tutta la malvagità viene eliminata e spazzata via come fa l’enorme pietra apocalittica di Dn 2:34,35 che frantuma i regni umani, li disperde senza che lascino traccia e riempie poi tutta la terra.
L’apocalittica si ferma alla risurrezione e al giudizio, premesse della fase finale. Ma il compimento? L’apocalittica rimane in attesa. Anzi, in due attese.
Un’aspettativa descrive il compimento in termini terreni vedendolo attuato su una terra diversa, cambiata. Così anche nell’apocalittica biblica: “Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21:3,4), “In mezzo alla piazza della città e sulle due rive del fiume stava l'albero della vita. Esso dà dodici raccolti all'anno, porta il suo frutto ogni mese e le foglie dell'albero sono per la guarigione delle nazioni”. - Ap 22:2.
La seconda attesa sposta tutto in cielo. Già nel testo apocalittico di Dn 12:3 si ha questo tipo di attesa: “I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento e quelli che avranno insegnato a molti la giustizia risplenderanno come le stelle in eterno”. Anticamente le stelle erano identificate con gli angeli. Yeshùa stesso si paragonerà ad una stella (Ap 22:16) e dirà che “quando gli uomini risuscitano dai morti … sono come angeli nel cielo” (Mr 12:25). Gli eletti, “che sono stati riscattati dalla terra” si trovano in cielo, “davanti al trono” divino, con Yeshùa. - Ap 14:1-4.
Così, la visione di una lunga vita d’eterna giovinezza in un mondo stupendo lascia poi il posto alla vita celeste simile a quella degli angeli.

L’unto (messia, cristo) apocalittico ha attinenza con la sferra terrena, mentre l’apocalittico “figlio d'uomo” di Dn 7:13 ha attinenza con la sfera celeste; avviene tra loro un passaggio di funzioni. Il compimento in terra si trasforma in un compimento in cielo. L’unto, il messia, svolge il suo compito prima di tutto per Israele, nella parte finale della storia. Il “figlio d'uomo”, che appartiene solo all’apocalittica, è un personaggio celeste: egli è “uno simile a un figlio d'uomo” (Dn 7:13), quindi non è uomo.
Se si considerano dovutamente tutti gli elementi dell’apocalittica, non sarà difficile per l’attento studioso della Scrittura rintracciare nelle parole di Yeshùa e dei primi discepoli quegli stessi elementi.

Nelle Scritture Ebraiche la retribuzione fu inizialmente intesa in senso collettivo, poi in senso più individuale (pur rimanendo sempre nella sfera terrestre).
• SENSO COLLETTIVO (INIZIALE)
“Punisco l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà, fino alla millesima generazione, verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti”. - Es 20:5,6.

“Al tempo di Davide ci fu una carestia per tre anni continui”. Dio è interpellato. Il “debito di sangue che pende su Saul e sulla sua casa, perché egli fece perire i Gabaoniti” va pagato. - 2Sam 21:1-5.
• SENSO INDIVIDUALE (POSTUMO)
“Non si metteranno a morte i padri per colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per colpa dei padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato”. – Dt 24:16.

“Non appena il potere reale fu assicurato nelle sue mani, egli fece morire quei suoi servitori che avevano ucciso il re suo padre; ma non fece morire i figli degli uccisori, secondo quanto è scritto nel libro della legge di Mosè, dove il Signore ha dato questo comandamento: «Non si metteranno a morte i padri per colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per colpa dei padri; ma ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato»”. - 2Re 14:5,6.

“Perché dite nel paese d'Israele questo proverbio: «I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati?»”, “Chi pecca morirà”. - Ez 18:2,4.

“In quei giorni non si dirà più: «I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati»”. – Ger 31:29.

La retribuzione per il bene ed il male era sempre vista come attuata sulla terra. Solo a partire dalla prima metà del 2° secolo E. V. iniziò a manifestarsi la credenza di sanzioni spirituali ed eterne. Ma – lo si noti bene -, siamo nel secondo secolo dell’Era Volgare. Tutta la Bibbia era già stata scritta, Yeshùa aveva compiuto il suo ministero ed era stato resuscitato, tutti gli apostoli erano già morti. Vuol dire questo che quelle credenze in un aldilà erano sbagliate? Non esattamente. Abbiamo già visto, studiando i Salmi, che delle intuizioni c’erano già state. Paolo parla chiaramente di un aldilà. Yeshùa stesso lo aveva prefigurato. Ma dal secondo secolo il sano insegnamento biblico fu inquinato da idee prese dal paganesimo, e s’inquinò sempre più fino all’attuale degenerazione cattolica che cataloga l’aldilà in infermo, purgatorio e paradiso.
Il progresso (quello biblico) fu dovuto a persone come Daniele che, sotto la guida dell’ispirazione divina, seppe vedere una realtà più profonda di quella materiale e semplicemente terrestre. Giobbe va collocato in un’epoca in cui la retribuzione individuale terrestre sembrava cozzare con l’esperienza quotidiana.
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Gianni
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Re: Scritture greche alla luce dell'interpretazione ebraica

Messaggio da Gianni »

'Non spetta a noi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riservato alla propria autorità'. - At 1:7.
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bgaluppi
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Re: Scritture greche alla luce dell'interpretazione ebraica

Messaggio da bgaluppi »

Il Dio di Israel non vive nel cuore di chi ci crede, non è subordinato alla fede al consenso di alcuno.
Besasea, tutti gli uomini che precedono Israele non erano ebrei. Il padre di ogni ebreo, Abraamo, non era ebreo. Adamo non era ebreo. Dunque, Abraamo non fu scelto per la sua ebraicità, ma perché era giusto. Dio sceglie in base alla giustizia, non alla razza. Sono gli uomini che distinguono in base alla razza (e generano dissidi, inimicizie, persino odio), non Dio. Se Dio facesse favoritismi, io non saprei proprio che farmene di un tale Dio, perché sarebbe simile agli uomini.
Antonio, questa tua uscita, totalmente infelice, mi meraviglia non poco. Pensavo tu avessi progredito e invece ti fai ancora influenzare dalla tattica malefica del NT
Era volutamente provocatoria e non c'è nulla di male ad essere provocatori, se serve a mettere in evidenza un fatto reale espresso dalla Bibbia o a esprimere un pensiero. Se poi mi viene dimostrato che sbaglio, ammetterò l'errore. Non sono io ad affermare che Israel non obbediva, è la Bibbia a farlo, in modo estremamente candido. Il candore con cui la Bibbia descrive i peccati del popolo ebraico è proprio una prova intrinseca della genuinità del racconto. O non è vero? Non farmi essere schietto. Quante volte Dio si lamenta del suo popolo? Vogliamo contarle e fare un elenco? Allora, capisci che viene da farsi delle domande. E non c'è alcuna dottrina malefica nel NT, sei tu che ce la vedi e vuoi continuare a vedercela (avrai i tuoi motivi, non so) e continui a restarne influenzato. Sono gli uomini ad essere malefici, non il NT. E tra gli uomini ci metto tutti, nessuno escluso. A me il NT ha insegnato a non giudicare nessuno, a perdonare e quindi ad amare; ma mi guardo in giro e vedo che nel mondo tutti si riempiono la bocca di queste parole, ma di fatto fanno esattamente il contrario, come gli ipocriti.
Armageddon
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Re: Scritture greche alla luce dell'interpretazione ebraica

Messaggio da Armageddon »

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A me il NT ha insegnato a non giudicare nessuno, a perdonare e quindi ad amare;
Ecco qui ci sarebbe da discuterne molto.... :-?

Saluti
LucaincercadiDio
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Re: Scritture greche alla luce dell'interpretazione ebraica

Messaggio da LucaincercadiDio »

Nel limite umano si intende!
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