Le traduzioni della Bibbia

GEMELLO76
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Re: Le traduzioni della Bibbia

Messaggio da GEMELLO76 »

Ciao Antonio, il commentario “ Investigare le Scritture – Nuovo Testamento”
( ed. La Casa della Bibbia) afferma che 2 Pietro 1:20 è stato interpretato in molti modi:

1) La Scrittura dovrebbe essere interpretata solo nel suo contesto, cioè: una profezia non può reggersi senza le altre profezie che contribuiscono alla sua comprensione.

2) La Scrittura non dovrebbe essere interpretata secondo le proprie interpretazioni personali.

3) La Scrittura non può essere correttamente interpretata senza lo spirito santo.

4) Le profezie non nascevano dai profeti stessi. Il termine epilyseos
( interpretazione, lett., soluzioni) ed il verbo ghinetai ( nacque) favoriscono la quarta ipotesi. Le profezie non scaturiscono dai profeti stessi; ciò che hanno scritto proviene da Dio. Il v.20, dunque, non parla di interpretazione, bensì di rivelazione, della fonte delle Scritture.

A me sembra una spiegazione soddisfacente.
GEMELLO76
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Re: Le traduzioni della Bibbia

Messaggio da GEMELLO76 »

Anche il "Commentario biblico del discepolo" di William MacDonald ( ed. CHRISTLICHE LITERATUR-VERBREITUN) da una spiegazione simile al commentario citato precedentemente:

" ...nessuna profezia della Scrittura proviene da un’interpretazione (od origine) personale. Questa affermazione ha suscitato una grande varieta di interpretazioni. Alcune sono assurde, come quella secondo la quale il diritto di interpretare la Bibbia apparterrebbe esclusivamente alla chiesa e i singoli individui non dovrebbero studiarla!
Altre, nonostante la veridicita dei loro asserti (p. es. e vero che non bisogna interpretare il singolo versetto al di fuori del passo in cui si trova e del contesto scritturale), non riescono a spiegare il significato di questo passo. In realta Pietro allude all’origine della parola profetica, non alle interpretazioni che ne danno gli uomini che l’hanno ricevuta.
Il punto e che, quando i profeti si apprestarono a scrivere, non riportarono la propria interpretazione personale degli eventi o le proprie conclusioni. In altre parole, il termine interpretazione qui non designa la spiegazione o l’esegesi da parte di coloro che hanno la Bibbia in forma scritta, bensi allude al modo in cui la Parola e venuta all’esistenza.
D.T. Young scrive:
Quindi il testo, compreso nel modo giusto… asserisce che la Scrittura non e umana nella sua origine prima. Si tratta dell’interpretazione di Dio, non dell’interpretazione dell’uomo. Taluni obiettano che alcune affermazioni della Scrittura rappresentano l’opinione di Davide, l’opinione di Paolo o l’opinione di Pietro. Al contrario, parlando in senso stretto, quelle Sacre Scritture non contengono alcuna opinione umana bensi, al contrario, l’interpretazione divina delle cose. Nessuna profezia della Scrittura e frutto dell’interpretazione del singolo individuo: gli uomini parlavano perche
sospinti dallo Spirito Santo
.- Dinsdale T. Young, The Unveiled Evangel, pp. 13-14.
Le versioni bibliche che recano “origine” in luogo di interpretazione sono, a nostro avviso, piu precise e corrette".
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bgaluppi
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Re: Le traduzioni della Bibbia

Messaggio da bgaluppi »

Grazie gemello76, ottimi spunti. Vediamo allora cosa dice esattamente il greco, per iniziare. Certamente, la traduzione CEI è da scartare.

πᾶσα προφητεία γραφῆς ἰδίας ἐπιλύσεως οὐ γίνεται·
ogni profezia della Scrittura (da) personale interpretazione (o spiegazione) non nasce

οὐ γὰρ θελήματι ἀνθρώπου ἠνέχθη προφητεία ποτέ, ἀλλὰ ὑπὸ Πνεύματος Ἁγίου φερόμενοι ἐλάλησαν ἀπὸ Θεοῦ ἄνθρωποι.
non infatti (da) volontà (o desiderio) di uomo fu portata (una) profezia mai ma da (per opera di) spirito santo essenti condotti (spinti) parlarono per (da parte di) Dio uomini

Messo in italiano scorrevole:

"ogni profezia della Scrittura non nasce da personale interpretazione (o spiegazione); infatti nessuna profezia fu recata da volontà (o desiderio) di uomo, ma (degli) uomini guidati dallo spirito santo parlarono da parte di Dio"

Il MacDonald (non quello degli hamburger :)) ) dice:

"Pietro allude all’origine della parola profetica, non alle interpretazioni che ne danno gli uomini che l’hanno ricevuta" ... "il termine interpretazione qui non designa la spiegazione o l’esegesi da parte di coloro che hanno la Bibbia in forma scritta, bensi allude al modo in cui la Parola e venuta all’esistenza."

Sono d'accordo. La parola origina da Dio (da chi altri?) e il termine interpretazione non è da riferirsi a "coloro che hanno la Bibbia in forma scritta", cioè il lettore. Infatti il v.20 dice che nessuna profezia "fu recata" da uomo. Che c'entrano mai coloro che la leggono? Inoltre, il senso di "spiegazione" non si inserisce nel contesto, in cui si parla dell'origine della profezia e del fatto che degli uomini non parlarono di loro iniziativa ma per volontà di Dio. I profeti non spiegavano le profezie, le riferivano; al limite, avrebbero potuto interpretarle, non spiegarle come degli esegeti.

Invece, ho dubbi sulla tesi del commentario "Investigate le Scritture", che dice: "Le profezie non scaturiscono dai profeti stessi; ciò che hanno scritto proviene da Dio." Certo. Se venissero dai profeti sarebbero solo parole umane. :YMAPPLAUSE: Poi, però, si va nell'ambiguo quando dice: "Il v.20, dunque, non parla di interpretazione, bensì di rivelazione, della fonte delle Scritture."

Ma non tutto ciò che lo scrittore sacro dice costituisce rivelazione.

Il punto che nessuno affronta è stabilire se quegli uomini riferirono come dei "medium" in trance la parola divina pura, senza filtro umano alcuno, oppure se il testo sta dicendo che degli uomini ispirati parlarono per volontà di Dio, in modo conforme a Dio, ma con le loro capacità espressive. Erano automi ripetitori di una parola divina immutabile o uomini in possesso delle loro facoltà cognitive che esprimevano a loro modo ciò che Dio ispirava in loro?
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Gianni
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Re: Le traduzioni della Bibbia

Messaggio da Gianni »

Devo complimentarmi per come viene condotta questa discussione.
Essa è stata posta correttamente, poi sono stati citati alcuni commentatori e sono state perfino valutate le loro spiegazioni, e tutto in modo corretto. Ottimo. Per una volta tanto si ha davvero l’impressione di essere nel posto giusto, oserei dire tra studiosi. :YMAPPLAUSE:

Nel mio piccolo cercherò anch’io di dare un contributo.

2Pt 1:21 presenta un problema di critica testuale. Infatti, il v. 21 si presenta nei vari manoscritti con lezioni diverse delle quali occorre scegliere la migliore. Esse sono:
• ἀπὸ θεοῦ ἄνθρωποι (apò theù ànthropoi), “da parte di Dio uomini [parlarono]”. - P72, B, P.
• ἅγιοι θεοῦ ἄνθρωποι (àghioi theù ànthropoi), “santi di Dio uomini”. - C.
• ἅγιοι ἀπὸ θεοῦ ἄνθρωποι (àghioi apò theù ànthropoi), “santi da parte di Dio uomini”. È una combinazione delle due precedenti: “Santi uomini da parte di Dio”. - Sin, K, Beda, Vg.

Il senso fondamentale, come si vede, non muta; possiamo escludere la terza lezione che proviene dall'armonizzazione delle altre due. Sembra più probabile la prima che può spiegare l'origine della seconda per la confusione delle lettere greche originarie scritte in maiuscolo:
ΑΠΟ (APO)
fu letto male come se fosse:
ΑΓΙΟ (AGHIO)
Ad ΑΓΙΟ (AGIO, pronuncia: àghio) fu poi aggiunto uno iota (I) per farlo concordare con il sostantivo plurale ἄνθρωποι (ànthropoi). Anche se talora il profeta è detto "santo" (àghios, cfr. At 3:21) in quanto partecipa alla sacralità divina ed è separato dagli altri uomini non profeti, è preferibile la preposizione "da" (apò) che meglio si accorda con il contesto del passo.

Il senso del passo. Si oppongono due diverse interpretazioni del vocabolo greco tradotto “interpretazione” (“Nessuna profezia della Scrittura sorge da privata interpretazione”, v. 20, TNM). La parola greca è ἐπιλύσεως (epilΰseos), genitivo di ἐπίλυσις (epìlysis) che letteralmente significa "soluzione di una difficoltà; dipanare un complesso problema, spiegazione, esposizione". Siccome la parola può riferirsi tanto al profeta quanto al lettore, si può tradurre con "deduzione" o "interpretazione".

Il lettore. Siccome il profeta ha parlato sospinto dallo spirito santo, ne viene che la sua parola non può essere lasciata all’interpretazione privata, ci vuole un'interpretazione guidata dallo spirito santo. Questa è l’interpretazione favorita da molti cattolici che vogliono vedervi la necessità della guida della Chiesa per capire la Bibbia (Fillion, Sales, Merk, Chaine). Tale ipotesi non regge perché qui Pietro sta parlando dell'origine, del sorgere della profezia: “Nessuna profezia della Scrittura proviene [γίνεται, ghìnetai] da […]” (v. 21). TNM perde questa importante sfumatura traducendo male quel ghìnetai: “La profezia non fu mai recata”. Si tratta quindi dell’origine della profezia e non della sua lettura e interpretazione. Tanto è vero che poi si continua al versetto seguente spiegando che i profeti hanno parlato perché sospinti dallo spirito santo. Di più, se Pietro avesse voluto insegnare che nessun lettore può capire con la propria intelligenza la profezia, avrebbe dovuto indicare dove si sarebbe potuto attingere la genuina interpretazione e additare quindi al lettore il magistero della chiesa di allora (apostoli e vescovi). Invece nulla dice di tutto ciò, anzi in seguito, quando parla di errori biblici, afferma che essi sono dovuti all'ignoranza del lettore che va eliminata dalla stessa persona con lo studio (togliere l'ignoranza) e con la fede (eliminare l'instabilità) senza alcun bisogno di un magistero specifico. Inoltre, l'ipotesi sembra anche contraddire quanto afferma l'apostolo all'inizio (v. 19): se la profezia non può essere compresa dal lettore, allora non è più “una lampada ancora più splendente capace di illuminare il cammino”. Occorre quindi ricercare un'altra soluzione.

Le parole di Pietro riguardano il profeta. La profezia non deriva da indagine personale, da deduzione umana, da iniziativa individuale, bensì da illuminazione dello spirito santo. È quanto affermava già Beda (morto nel 735) nel commento a questo passo: “Nessuno dei santi profeti predicò i dogmi della vita con una sua propria interpretazione, ma ciò che Dio aveva detto, raccomandò di farlo ai suoi servitori”.
I profeti ispirati erano “mossi” dallo spirito santo (v. 21), vale a dire “sospinti” (φερόμενοι, feròmenoi), condotti da esso come una nave è sospinta dal vento (cfr. At 27:15). Il paragone non è improprio: in ebraico la parola “spirito” significa “vento”.
Il risultato di questo “essere sospinti” fu il fatto che quelli parlarono da parte di Dio (apò Theù). Quindi la loro parola era parola di Dio e al tempo stesso rivelazione per coloro che li ascoltavano. Il fatto che “parlarono” significa che furono uomini reali, non solo strumenti passivi come alcuni cosiddetti Padri della Chiesa e alcuni teologi della post-riforma pensarono, difendendo una ispirazione puramente meccanica. I profeti furono persone viventi, personalmente attive in tutto il processo del loro parlare. Lo scrivere è pur esso un parlare, un profetizzare, come risulta da Lc 1:63: “Egli [Zaccaria], chiesta una tavoletta, scrisse”.
Quindi il processo dell’ispirazione riguarda in modo speciale la predicazione. Tuttavia, siccome Pietro invita i suoi lettori a consultare questa “parola profetica” che allora giaceva depositata nello scritto, significa che anche lo scritto ha il medesimo valore della parola orale. Non vi è quindi distinzione per noi tra la predicazione profetica e il libro che la contiene. Il passo di Pietro riguarda evidentemente le Scritture Ebraiche, che erano ritenute tutte una profezia: “Queste cose avvennero loro per servire da esempio e sono state scritte per ammonire noi, che ci troviamo nella fase conclusiva delle epoche” (1Cor 10:11). Tuttavia, può valere anche per le Scritture Greche perché più avanti Pietro vi affianca le lettere di Paolo, paragonate pure esse alla Sacra Scrittura: “Anche il nostro caro fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; e questo egli fa in tutte le sue lettere, in cui tratta di questi argomenti. In esse ci sono alcune cose difficili a capirsi, che gli uomini ignoranti e instabili travisano a loro perdizione come anche le altre Scritture”. - 2Pt 3:15,16.

In conclusione possiamo asserire che i profeti furono strumenti assunti da Dio per insegnare agli uomini. Il loro ammaestramento è quindi sempre alla portata di tutti, perché è contenuto nella Sacra Scrittura. A questa, che è tuttora accessibile, possono riferirsi i credenti che non erano presenti alla trasfigurazione di Yeshùa. La Bibbia è quindi più importante di questo evento perché tale miracolo fu visibile solo a tre apostoli, mentre la Sacra Scrittura è sempre alla portata di tutti.
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bgaluppi
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Re: Le traduzioni della Bibbia

Messaggio da bgaluppi »

Hai ragione, Gianni. Manca Noiman a dare il suo contributo. :-) La discussione biblica è bella e, soprattutto, molto istruttiva ed edificante.

Dove ricercare la dimostrazione della tesi per cui il profeta parlava secondo le sue capacità espressive e culturali, e non come un ripetitore meccanico? Naturalmente nei testi stessi. Se ciò che usciva dalla bocca del profeta era la pura parola divina senza filtri, dovremmo riscontrare in tutti i testi profetici una unicità di stile. Lo stile di Isaia dovrebbe essere lo stesso di quello di Ezechiele, per dire; e lo stile del libro di Daniele lo stesso di quello dell'Apocalisse di Giovanni. Invece non è cosí.

In Isaia riscontriamo un linguaggio forbito, perché era un aristocratico; in Amos un modo di esprimersi semplice, perché era un bovaro, e molte immagini legate all'ambiente in cui è vissuto (la parola di Dio è come il ruggito del leone); Geremia, originario di Anatot, un umile villaggio nei pressi di Gerusalemme, utilizza un linguaggio rozzo. Anche nelle Scritture Greche ci sono profonde differenze. Il greco di Luca è superato solo da quello della lettera agli ebrei, piú elegante, mentre quello di Giovanni presenta, per quanto riguarda il vangelo, l'uso di molte traslitterazioni dall'aramaico e costruzioni tipicamente semitiche e, per Apocalisse, un incorretto uso della grammatica e della sintassi.

Se il profeta ripetesse meccanicamente la parola di Dio cosí come proveniva da Dio, dovremmo pensare che Dio si esprimeva a volte in modo elegante, a volte rozzo, e che ogni tanto si dimenticava grammatica e sintassi! Non è più logico pensare che tutte queste differenze nei testi siano date dalle diverse capacità espressive dei profeti che li produssero? Del resto, un concetto o un'idea possono essere espressi in molti modi diversi. Come esempio possiamo citare un insegnamento di Yeshùa. In Lc 14:26 leggiamo: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo.”. Mt 10:37 dice la stessa cosa in modo diverso: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me.”. Stesso concetto, parole diverse. Forse uno dei due non riferí la parola così come fu comunicata direttamente da Dio? Ma no. I due avevano estrazioni sociali e mentalità diverse, e ciò si riscontra nei loro scritti ispirati.

Inoltre, visto che la parola fu trasmessa prima come "parola", ossia oralmente tramite la predicazione, e poi fu messa per iscritto, come potremmo pensare che i redattori (che non erano necessariamente i profeti ispirati stessi) siano stati capaci di ricordare tutto per filo e per segno, senza apporre alcuna modifica al discorso orale, nel loro lavoro di trascrizione? In questo caso dovremmo porre seri dubbi alla sacralità del testo Biblico. Fantascienza.

Plutarco, pur essendo un pagano, ebbe una grande intuizione a proposito dell'Oracolo di Delfo. A chi si stupiva che la Pizia (l'Oracolo), nel riferire le parole del dio delle arti Apollo, non si esprimesse in modo più elevato rispetto ai poeti umani, rispose che non c'era motivo di credere che quelle parole provenissero direttamente da Apollo; il dio dava l'impulso, innescava l'ispirazione, e la profetessa si esprimeva, in base a quell'impulso, secondo la sua natura.
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Gianni
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Re: Le traduzioni della Bibbia

Messaggio da Gianni »

Proprio così, Antonio.
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bgaluppi
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Re: Le traduzioni della Bibbia

Messaggio da bgaluppi »

Vorrei prendere in considerazione Col 2:9 perché secondo me contiene spunti interessanti su cui discutere. La frase completa è:

ὅτι ἐν αὐτῷ κατοικεῖ πᾶν τὸ πλήρωμα τῆς θεότητος σωματικῶς
òti en autò katoikèi pan to plèroma tes theòtetos somatikòs

Traducendo letteralmente, si ha: "poiché in lui dimora (risiede) tutta la pienezza della deità corporalmente"

Ho notato delle piccole differenze tra i principali traduttori relativamente alla frase:

“τῆς θεότητος σωματικῶς” (tes theòtetos somatikòs)

Tutti i traduttori, tranne CEI e TNM, si allineano su “in lui abita corporalmente tutta la pienezza della deità”. CEI rende con “pienezza della divinità”; TNM con “pienezza della qualità divina”. Prima di entrare nel merito delle esegesi dei vari traduttori, vorrei fare alcune considerazioni sul significato proprio dei termini.

Notando queste piccole differenze, che ad una prima lettura sembrano essere poco rilevanti ai fini del senso del discorso, ho fatto una ricerca e ho scoperto che Paolo utilizza due termini diversi per "deità" o "divinità", che compaiono una sola volta ciascuno in tutte le Scritture Greche. Uno è θεότης (theòtes), utilizzato nel versetto in esame, e l'altro è θειότης (theiòtes), utilizzato in Rm 1:20.

Analizzando il significato dei due termini, scopro che i dizionari biblici fanno alcune differenziazioni, che secondo me portano solo confusione. Secondo il Thayer's Greek Lexicon, theòtes sarebbe "lo stato di essere Dio", diverso da theiòtes che indicherebbe piuttosto l'attributo divino, "in quanto l'essenza differisce da qualità o attributo"; questo dizionario traduce theòtes (da theòs, "deità", "dio", "Dio") con "deità" (essenza divina) e theiòtes (da thèios, "divino") con "divinità" (natura divina). Lo Strong traduce ambedue i termini con "divinità", esattamente come il vocabolario greco-italiano Lorenzo Rocci ("divinità", "natura divina"). Plutarco utilizza ambedue i termini col senso di "divinità", "natura divina".

La scelta di Paolo nell'utilizzo dei due termini è determinata forse dal fatto che in Col 2:9 sta parlando di Yeshùa, mentre in Rm 1:20 sta parlando di Dio? Nel versetto dalla Lettera ai Romani leggiamo:

“infatti le sue [di Dio] qualità invisibili, la sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente fin dalla creazione del mondo essendo percepite per mezzo delle opere sue”.

Partendo da questo versetto, si capisce bene il senso del termine theiòtes, ben espresso dai dizionari con "divinità", "natura divina". È ovvio che Dio non può che avere natura divina. Ma nel versetto di Col 2:9, parlando del Cristo, Paolo utilizza theòtes, che, come abbiamo visto, i traduttori rendono in modi leggermente diversi. La TNM, utilizzando il senso di "qualità divina", cerca molto probabilmente di sostenere la dottrina binitaria dei TdG, secondo cui il Messia non sarebbe Dio (come affermano invece i trinitari) ma "un dio" (cfr. TNM in Gv 1:1). Addirittura, i TdG identificherebbero il Messia con l'arcangelo Michele; ma, traducendo Col 2:9 come fanno, contraddicono la loro stessa dottrina senza rendersene conto, poiché un arcangelo non può essere un dio e quindi non può avere qualità divine, ma semmai angeliche. La trinitaria CEI, d'altro canto, non si pone problemi nel tradurre con "divinità", mentre gli altri traduttori scelgono "deità", forse nel tentativo di differenziare il concetto di "essenza" o "sostanza divina" da quello di "natura divina".

Dunque, i traduttori traducono bene, in fin dei conti (tranne forse TNM), ma è necessario chiarire il senso del concetto di "pienezza divina".

La "deità" di cui Yeshùa fu ripieno era determinata piuttosto dalla presenza dello spirito e della parola di Dio in lui, quindi dalla presenza attiva di Dio, ma non in senso letterale. Come la parola del profeta è a tutti gli effetti parola di Dio, poiché tramite l'ispirazione egli comunica quella che è la volontà di Dio, così Yeshùa manifesta le qualità divine che dimorano in lui ("la parola è diventata carne", Gv 1:14), ma sempre non in senso letterale. Del resto, anche i credenti possono ospitare la pienezza della deità (Ef 3:19), ma questo non fa di loro esseri dotati di attributi divini.

Questo modo di esprimere certi concetti astratti in termini concreti è tipico dei semiti. Infatti, Yeshùa stesso afferma che chi ha visto lui ha visto Dio, ma allo stesso tempo Giovanni chiarisce perfettamente il senso di tale modo di esprimersi concreto: “Nessuno ha mai visto Dio; l'unigenito Figlio, che è nel seno del Padre, è colui che lo ha fatto conoscere.” (Gv 1:18, ND).
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Re: Le traduzioni della Bibbia

Messaggio da trizzi74 »

Ciao bgaluppi, trovo molto interessante la tua proposta di prendere in considerazione questo versetto di colossesi che i trinitari usano spesso per affermare la dottrina trinitaria.
Vorrei chiederti che differenza di significato esiste tra deità, divinità e natura divina.

Spero che anche Gianni possa darmi un suo parere.
"Le religioni sono sistemi di guarigioni per i mali della psiche, dal che deriva il naturale corollario che chi è spiritualmente sano non ha bisogno di religioni."
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Re: Le traduzioni della Bibbia

Messaggio da Gianni »

“In lui [Yeshùa] abita corporalmente tutta la pienezza della Deità” (2:9, NR). TNM teme forse quest’affermazione di Paolo così forte, se traduce: “In lui dimora corporalmente tutta la pienezza della qualità divina”. No, il testo greco originale dice proprio τῆς θεότητος (tès theòtetos), “della divinità” e non della “qualità divina”. Anziché alterare la Scrittura, sviando il lettore, occorrerebbe invece capirne il significato. La parola greca θεότης (theòtes), numero Strong 2320, di cui θεότητος (theòtetos) è genitivo singolare, deriva da θεός (theòs), “Dio”, ed è un sostantivo femminile che significa “divinità, lo stato di essere Dio, Divinità” (Vocabolario del Nuovo Testamento). Questa parola indica la “natura divina” e non dei semplici attributi d’essa o la qualità divina. Per la “qualità divina” il greco ha una parola apposita: θειότης (theiòtes), scritto con la ι (iòta, corrispondente alla nostra “i”).
Nominativo Genitivo Significato
θεότης θεότητος Natura divina, divinità
theòtes theòtetos
θειότης θειότητος Qualità divina
theiòtes theiòtetos

TNM inverte il significato delle due parole, traducendo in Rm 1:20 “Divinità” quando – lì sì – dovrebbe tradurre “qualità divina” perché la parola greca è θειότης (theiòtes). L’aggettivo derivato da θειότης (theiòtes), “divinità”, è “divino” (θεῖος, thèios), usato in 2Pt 1:3,4 che TNM qui traduce correttamente con “divina” riferito alla potenza (v. 3) di Dio e alla sua natura, sottintesa al v. 4; in At 17:29, dove il greco ha solo “il divino [τὸ θεῖον (to thèion)]”, traduce “l’Essere Divino”.
Si noti come non venga affatto detto nel testo che Yeshùa sia Dio. Il testo dice che in Yeshùa dimora “tutta la pienezza della natura divina” (traduzione dal greco). Paolo intende dire che “la natura divina” non si trova affatto negli spiriti esaltati da quelli di Colosse, bensì in Yeshùa glorificato.
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Re: Le traduzioni della Bibbia

Messaggio da trizzi74 »

Grazie Gianni per il tuo ottimo commento!

Però mi piacerebbe che tu rispondessi a questa domanda che ho posto a bgaluppi:

Esiste una differenza di significato tra deità, divinità e natura divina?
"Le religioni sono sistemi di guarigioni per i mali della psiche, dal che deriva il naturale corollario che chi è spiritualmente sano non ha bisogno di religioni."
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